Nei giorni scorsi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato l’Italia a risarcire una coppia che aveva ottenuto un figlio ricorrendo alla pratica dell’utero in affitto: gameti provenienti da donatori anonimi, gravidanza portata avanti all’estero da una donna consenziente, bambino dichiarato figlio della coppia italiana. Tutto in violazione della legislazione nazionale che vieta tali pratiche, come riconosciuto dalla Cassazione, che ha negato l’iscrizione del bambino all’anagrafe come figlio della coppia in quanto assente qualsiasi legame biologico e in quanto pratica contraria all’ordine pubblico. Il bambino, dopo 6 mesi di vita con i presunti genitori, è stato dato in affidamento e dichiarato adottabile.
La CEDU emette una sentenza che ha al proprio interno una certa “complessità”, segno di una presa di posizione non così inevitabile e di una interpretazione non così certa (e infatti due giudici su sette hanno votato contro): dice che anche se l’Italia ha correttamente rispettato la propria legislazione, non avrebbe dovuto togliere il bimbo alla coppia che l’aveva ‘commissionato’ perché si era instaurata una forma di vita familiare “de facto”. Ma poiché ora il bambino ha instaurato un’altra relazione affettiva di tipo familiare non può essere restituito alla coppia ricorrente, che ha diritto solo ad un risarcimento.
Pur considerando il preminente interesse del minore, non si comprende come si possa condannare uno Stato, che applica legittimamente la propria legislazione – a risarcire la coppia che ha commesso diverse violazioni, anche di carattere penale. L’Italia è purtroppo abituata a sanzioni dall’Europa, purtroppo siamo spesso inadempienti su tante questioni, spesso siamo dalla parte del torto, ma in questo caso la sentenza va davvero rispedita al mittente, multa compresa. Infatti la CEDU non impone all’Italia di cambiare la propria legislazione in materia, né attribuisce alla giurisdizione nazionale violazioni di diritto interno o internazionale. Dice semplicemente che l’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente è una misura esagerata. In pratica: vuoi un figlio su commissione, ricorrendo a pratiche anche illegali? Basta che lo trattieni in famiglia per qualche mese, e tutto viene cancellato.
Manca, nella sentenza della Corte europea, l’attenzione sull’interesse del minore in relazione alle più controverse pratiche di fecondazione. Manca, nella sentenza, qualsiasi riflessione sul reale interesse del minore a poter nascere e crescere nella propria famiglia, ad avere un padre e una madre, ad avere una identità biologica e una ‘storia’ familiare e personale certi, che possano che costituire un bagaglio identitario. Eppure è risaputo che il nodo delle origini è controverso, e genera spesso fatiche, sofferenze e azioni anche giudiziarie, come ha ampiamente evidenziato la letteratura sulla ricerca delle origini dei bambini adottati. Da cui risulta almeno che non ci sono ricette facili, né basta “tagliare con la spada” il complicato nodo relazionale tra genitori biologici e genitori adottivi. Qui invece la CEDU non ha certo lavorato di fioretto, ma ha usato la mannaia, semplificando tutto su una lettura unilaterale dei diritti in gioco, e senza nemmeno rispettare le proprie regole di autolimitazione rispetto alle legislazioni nazionali.
È evidente che in questo come in altri casi la Corte oggettivamente tenta di limitare la pur riconosciuta sovranità dell’Italia – in materia di filiazione, adozione, ordine pubblico, temi che sono di competenza della giurisdizione nazionale – interpretando la Convenzione europea e il suo potere in modo unilaterale. Tutto ciò senza sentire il bisogno di una comparazione tra le varie legislazioni per stabilire una regola generale in materia di utero in affitto “indipendentemente da qualsiasi considerazione etica” (emblematico il punto 76 della sentenza…). Addirittura stabilendo che il procedimento penale ancora in corso a carico della coppia ricorrente non influisce sulla vicenda affrontata.
Il Governo italiano ha quindi l’urgenza e il dovere di indirizzare un convinto ed argomentato ricorso alla Grande Camera, come previsto dall’art. 43 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Occorre difendere anche in questo ambito il principio di sussidiarietà, motore virtuoso del progetto europeo, che consente ai singoli popoli di sentirsi protagonisti della nuova Europa, nelle loro identità e specificità culturali, valoriali e politiche, anziché sentirsi vittime un’Europa in cui, a colpi di sentenze e di procedure burocratiche, tutti saremo costretti a pensare sempre di più nello stesso modo. La più volte riconosciuta libertà di uno Stato a legiferare in materia di diritto di famiglia e di filiazione e l’ampio margine di apprezzamento di cui gode per decidere eventuali controversie in materia a causa della delicatezza di tali questioni etiche, pur nel rispetto delle Convenzioni internazionali, non possono essere subordinati ad un pensiero unico.
Al di là del caso concreto è quindi necessario che sia riaffermato una volta per tutte, nell’interesse comune dell’Europa e di ciascun Stato membro del Consiglio d’Europa, il principio secondo cui la materia del diritto di famiglia e dello stato delle persone sono di esclusiva competenza nazionale. Si tratta di Stati sovrani con una propria sensibilità etica, con una storia millenaria e tradizioni sociali e giuridiche da difendere e promuovere anziché uniformare alla tendenza del momento espressa dalla CEDU: non si tratta di commercio o di circolazione delle persone, si tratta dell’essenza stessa di un essere umano. Ci auguriamo che il Governo proceda quanto prima in tale senso; da parte nostra vigileremo con ogni strumento a nostra disposizione.