Proviamo a fare il punto, con l’aiuto di qualche numero, sul fenomeno dei barconi che viaggiano pericolosamente nel Mediterraneo, una realtà che è andata via via accentuandosi e che, manipolata dalla brutalità di interessi e ideologie disumane, rischia di trasformarsi in un dramma per chi ne è coinvolto e in una pesante sconfitta per chi avrebbe dovuto governarla.
Lungo quella che è stata definita la “strada più mortale del mondo” – con riferimento ai 3.419 migranti che, secondo una stima delle Nazioni Unite, hanno perso la vita nel 2014 tentando di raggiungere l’Europa via mare – sono giunte in Italia oltre 170mila persone nel 2014. Un collettivo in fuga da conflitti, carestie, soprusi, instabilità politica ed economica il cui numero è pressoché equivalente all’apporto netto di immigrati “tradizionali” ufficialmente emerso dal bilancio anagrafico di quello stesso anno (Istat, Indicatori Demografici 2014).
Se si pensa che fino al 2010 giungevano mediamente in Italia via mare poco più di 20mila migranti, con punte di 50mila nel 1999 (Albania e conflitto in Kosovo) e 37mila nel 2008 (conflitti e carestie in Somalia, Eritrea, Nigeria); e che anche nel 2011, con la “Primavera” araba”, si era arrivati al record di 63mila unità, si ha un’idea dell’accelerazione subita del fenomeno lo scorso anno e ben se ne comprendono le drammatiche conseguenze anche in termini di vite umane. Un pesante tributo, di cui le 366 vittime del naufragio davanti all’isola di Lampedusa offrono una testimonianza tuttora viva e toccante.
Ed è proprio a seguito di tale dramma che il Governo italiano aveva promosso l’operazione Mare Nostrum grazie alla quale – garantendo il soccorso fino a 120 km dalla costa italiana – l’incidenza dei morti lungo la rotta libica si è significativamente ridotta passando, stando alle valutazioni più recenti (G. Papavero 2015, www.ismu.org), da una vittima ogni diciassette sbarcati a una ogni cinquanta. Il tutto mentre la Libia ha progressivamente rafforzato il primato come base di partenza, imbarcando nel 2014 oltre l’80% delle persone giunte sulle nostre coste, laddove erano il 64% nel 2013 e il 38% nel 2012. Se poi ci si sofferma sul ventaglio di nazionalità rilevate al momento dello sbarco si coglie, pur scontando le incertezza legate a dichiarazioni difficilmente verificabili, una geografia del malessere che sembra incombere su un’umanità in cui l’oppressione e il fanatismo si sommano alla contrarietà degli eventi naturali e alle difficoltà di contesti di vita inospitali.
Non è un caso che nel 2013 e nel 2014 circa un quarto degli sbarcati siano riconducibili a cittadini siriani in fuga dal loro paese, mente nel 2012 essi rappresentavano meno del 5% degli arrivi. Non va inoltre dimenticato come traversate del mare coinvolgano sempre più spesso minori, e in questi ultimi tempi si ha persino motivo di credere che la loro massiccia presenza rifletta scelte e strategie ben mirate da parte dei trafficanti e di chi li assolda. Considerando i minori sbarcati del 2014 in provenienza dalla Libia e dalla Tunisia – per i quali il dettaglio è disponibile – sembra che ne siano stati accolti oltre 18mila, pari al 13% dei corrispondenti arrivi.
Ma la dimensione ormai assunta dal fenomeno degli sbarchi in Italia, oltre a scuotere le coscienze, non manca di sollevare dubbi anche rispetto alla capacità del nostro Paese nel sostenere tali livelli di accoglienza. Ancora una volta i numeri vanno letti e valutati con realismo, e la riflessione che essi stimolano rimanda all’immagine della piena del fiume arginata unicamente raccogliendone l’acqua in un secchio. Appare dubbio che un (pur meritorio) approccio dettato dall’emergenza possa continuare a reggere allorché il fenomeno si trasforma in strutturale. L’Africa sub-sahariana ha oggi 920 milioni di abitanti di cui circa un terzo sono in età tra 20 e 40 anni, ossia giovani alla ricerca di un futuro che, con crescente consapevolezza, sanno essere meglio spendibile nel Nord del mondo. Il confine tra dare riparo a chi fugge dai pericoli e a chi, altrettanto legittimamente, cerca di lasciarsi alle spalle fame e povertà diventa così estremamente labile. E in un mondo in cui si passa dai 30-40mila dollari annui pro capite nei grandi paesi dell’Europa mediterranea ai meno di mille in molte realtà africane, è difficile mantenere equilibrio tra le spinte espulsive prodotte entro queste ultime e la forza attrattiva di società, come le nostre, che ostentano benessere attraverso canali sempre più capillari e accessibili a una platea planetaria.
L’attraversata del Mediterraneo non è dunque sempre un atto di fuga per lasciar indietro di sé eventi che mettono in pericolo la propria vita, essa rappresenta già oggi per molti – e si può ritenere che lo diventerà sempre più in futuro – una strategia (pericolosa) per tentare di imprimere una svolta radicale all’esistenza. E non ci sorprende constatare come al 37% delle richieste di asilo esaminate in Italia nel 2014 non siano stati riconosciuti i presupposti per una qualche forma di protezione (molto più che nel 2013 quando i dinieghi rappresentavano il 29%).
In conclusione, il rischio legato alle nuove tendenze che sta assumendo il fenomeno degli sbarchi sulle coste italiane è che la macchina dei soccorsi, nata come lodevole e doverosa risposta a situazioni emergenziali, possa definitivamente trasformarsi in una routine, resa necessaria da una consuetudine inarrestabile o persino manovrata da pericolosi interessi di destabilizzazione. Occorre dunque trovare il modo affinché, da un lato, si possano ridefinire, in modo chiaro e condiviso sul piano internazionale, i principi e le procedure cha stanno alla base dell’accoglienza; dall’altro, affinché si decidano, con analoga chiarezza e consenso, le risorse e le modalità con cui intervenire. Non solo per riprendere il controllo del fenomeno, ma soprattutto per contrastare i fattori che ne determinano la crescita e gli orientamenti pericolosamente distorti.