Dropped, abbandonato, ma anche calato giù, paracadutato. Immaginate di essere buttai giù da un elicottero in una terra sperduta e inospitale, con una piccola riserva d’acqua con voi, e nient’altro. Cavatevela, a mangiare, a ripararvi da freddo, animali e altri accidenti. Folle, ma anche entusiasmante, se siete spiriti arditi. E’ il titolo, e il format del reality francese uscito dalle pagine degli spettacoli e assurto all’onor della prima, sottotitolo cronaca nera.
Un incidente, forse uno scontro tra due elicotteri con a bordo dieci persone, operatori, giornalisti della società di produzione, i piloti, e tre famosi sportivi. Perché proprio agli sportivi era dedicato il programma: più avvezzi, per l’allenamento fisico e psicologico, ad affrontare la gara e le sue difficoltà, più attrezzati a sopportare sacrificio e fatica. Sono morti così, in un cielo argentino mentre sorvolavano la provincia di La Rioja, duemila km da Buenos Aires, Camille Muffat, 25 anni, medaglia d’oro olimpica di nuoto; Alexis Vastine, 28 anni, bronzo olimpico a Pechino e campione del mondo dei superleggeri, e Florence Arthaud, 57 anni, navigatrice in solitario. Tre personaggi, in Francia. Tre glorie, per il loro paese. Che commisera, compiange, si duole, e purtroppo, come noi tutti, comincia a discutere, a dibattere.
Morire per un gioco, si può? Si può rischiare tanto per l’ansia da prestazione di famosi che lo sono un po’ meno, la rincorsa dei media, la paura di essere fatti fuori dallo star system; e la frenesia da audience, gli investimenti economici sempre più scarsi di chi fa i programmi, che peraltro tirano meno, non sanno più stupire e incollare al televisore? Sono troppi, questi reality. Abbiamo visto improbabili ospiti patire noia, fame, freddo, punture d’insetti, li abbiamo spiati accoppiarsi, tradirsi, piangere, insultarsi, prendersi a morsi e pugni; li abbiamo visti ammalati e depressi, strafottenti e aggressivi. Non ci interessano più. All’Isola dei famosi hanno dovuto appellarsi a Rocco Siffredi per alzare gli ascolti e l’eccitazione, e non cercavano doti particolari, se non quelle fornite da madre natura. Visto anche lui, rimane ben poco. L’esagerazione, lo scandalo, l’eccesso diventano dunque una necessità per accalappiare gli sguardi, per far parlare di sé, per attirare pubblicità e contratti televisivi futuri.
Vale la pena morire per un po’ di visibilità? Eccome, la storia dell’umanità tutta ce lo insegna. Magari però si trattava di gloria in battaglia, o in campo artistico, o per spirito d’intraprendenza. Qualche punto di share sono uno stimolo meno invitante, apparentemente, perché noi siamo oggi quel che appariamo, e se non appariamo non esistiamo, siamo invisibili, che è la condizione comune, ma diventa un dramma per chi ha avuto notorietà e volto pubblico. Non importa se per un valore reale, condiviso, oggettivo, come in questo caso gli sportivi deceduti tragicamente. Apparire significa contare, avere soldi, potere, futuro.
Insopportabile moralismo commendare il programma fatale o i reality in sé, o accusare il sistema. C’è sempre un sistema. Il sistema per cui si è uccisa Marilyn? Il sistema per cui si è ucciso Jim Morrison, o Jimi Hendrix? Il sistema per cui si dopava ed è stato dopato Pantani? Il sistema per cui era depresso Gassman? C’è sempre un sistema cui affidiamo la felicità e la realizzazione della nostra vita, e sempre ci delude, ci uccide, in un modo o nell’altro.
Io la vedo in modo più diretto e più semplice, in questo caso. Florence era una donna tosta, un’avventuriera, che tante ne ha vinte e tante se n’è cercate, sempre sul filo. Vastine era border line, ma in un altro senso: come tanti pugili, salvato coi pugni dai pugni in faccia presi da ragazzo, non aveva retto le sconfitte, l’esclusione feroce, la morte della sorella. Cercava uno sfogo, altri pugni da dare e da prendere. Camille era carattere e bellezza, prestanza, al massimo della gloria, timorosa di perderla, doveva mettersi in mostra. Sfidare l’ambiente, il clima e se stessi era una bella scommessa, e l’hanno giocata, con l’identica voglia di divertirsi e rischiare che si ha da ragazzini, quando si sale sull’ottovolante. Mica ci pensiamo, che può cadere e schiacciarci, quando ci balena l’idea è perché stiamo invecchiando. Non era per il reality, o almeno non solo. Era per continuare la gara, per osare, e salire su un podio.
Valeva la pena morire per questo? Potevano morire allo stesso modo in una vacanza in resort, o per raggiungere la sede di un convegno di qualche federazione. Non vale mai la pena morire. E non siamo noi che lo decidiamo, né la troupe di un reality. Vale la pena vivere, e dipende da come si è vissuto.