Il Giubileo della Misericordia, annunciato ieri dal Papa durante la celebrazione penitenziale nella Basilica di San Pietro, non solo corona la fine del secondo anno di pontificato di Francesco, ma rappresenta un evento di portata storica per la Chiesa cattolica e per il mondo intero. L’Anno Santo che inizierà l’8 dicembre prossimo, e si concluderà il 20 novembre del 2016, si rapporta al pontificato di Francesco come il Concilio Vaticano II si rapportò a quello di Giovanni XXIII: esso, infatti, ne segna in qualche modo l’apice e l’essenza, la vera eredità che il Papa desidera consegnare alla Chiesa e a tutti gli uomini di buona volontà. 



Non è un caso, allora, la data scelta per dare il via a tale avvenimento: l’8 dicembre 2015, infatti, oltre ad essere la solennità dell’Immacolata Concezione, è anche il cinquantesimo anniversario della chiusura del Concilio, a significare l’ideale continuità tra i due momenti e il ruolo loro assegnato di “porte” che lo Spirito Santo — attraverso la Chiesa — desidera aprire nel nostro tempo per incontrare l’umanità intera. Quelle porte non sono uno “spot pubblicitario” o “un’operazione di marketing” portata avanti da Bergoglio per “raggranellare” qualche entrata straordinaria per la Chiesa, e neppure un modo con cui il Papa intende “influenzare il prossimo Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia” o “imporre la propria visione teologica a tutta la Cristianità”: chi commenta con questi toni non manifesta una lontananza dalla “linea del Papa” quanto una lontananza da sé.



Riaprendo quella porta infatti, la Porta Santa, il Papa intende rispondere in modo radicale a tutte le questioni urgenti del nostro tempo. Di fronte all’avanzata dell’Isis e al mutamento degli equilibri internazionali — con l’ascesa politica ed economica apparentemente inarrestabile della Russia e dell’Asia —, di fronte alla crisi di un’Europa senza più identità e ad antichi rancori che tornano a turbare il Mediterraneo e il Vecchio Continente, di fronte al dibattito che dilania la Chiesa cattolica in Occidente e porta alcune frange più estremiste a negare l’autorità e la legittimità del Pontefice, Francesco — dinnanzi a tutto questo — non si rifugia semplicemente nella teologia o nella diplomazia, ma riapre la partita riaprendo quella Porta, l’Abbraccio di Cristo, al mondo intero e rispondendo così non ad istanze politiche o economiche, non a beghe interne o a considerazioni da salotto, ma all’urgenza ultima di ogni uomo. 



Un cristiano che oggi muore sotto l’egida del califfato, una donna che piange per suo figlio morto, un marito che non riesce più a guardare in faccia sua moglie o un adolescente che non capisce chi amare e come amare, non ha altro bisogno del fatto che quella Porta si riapra, che Cristo torni a incrociarlo e a guardarlo nell’intimo del proprio Io, che la sua vita percepisca di nuovo quell’amore e quella forza che — davvero — fa ripartire tutto. 

Quando Cristo venne non si fermò a commentare o a maledire il Suo tempo, non chiese nuove leggi né promosse nuove istanze sociali e culturali, ma semplicemente donò se stesso e “fece” il cristianesimo. Così Bergoglio, nell’ora del fallimento di ogni negoziato di pace in Medio oriente, nell’ora in cui gli amici muoiono e poche organizzate lobbies cercano di imporre il loro potere in ogni sede e in ogni istituzione del pianeta, non si mette a commentare il mondo, ma riapre quella Porta attraverso la Quale Gesù — ancora oggi come duemila anni fa — ci attrae. 

Non c’è fallimento affettivo, disperazione esistenziale o povertà su questa terra che non cerchi — drammaticamente — quella Porta. La Porta che oggi sembra murata e inaccessibile a causa dell’egoismo e dell’avidità degli uomini, la Porta che riconsegna alla vita la libertà da ogni rabbia e da ogni paura, quella Porta è lì e sta per essere riaperta. Chi non sente bruciare dentro di sé questa ultima mendicanza verso il Cielo, questo ultimo sospiro verso la Vita che passa e che ci interroga, non può che rifugiarsi in un fortino fatto di sdegno e di cinismo, carico di biasimo e di livore per “gli altri”. Dentro la Chiesa, come fuori, si annidano coloro che sono così Cattolici da aver dimenticato il Cristianesimo, così Cittadini da aver perso di vista che cosa significhi essere anzitutto Uomini. Sono costoro che, di fronte alla grandezza e alla forza di questo Papa, non riescono ad arrendersi e alimentano in ognuno di noi sospetto e scetticismo. Essi ci regalano rigide certezze e coltivano un’ultima sfiducia verso la realtà, verso quello che il Mistero — in modo così grandioso e sbalorditivo — sta compiendo dentro la storia “ora”, per concentrarsi su quello che — a loro dire — in realtà Esso dovrebbe compiere e adempiere con diligenza. 

Questi personaggi non hanno nome e cognome, ma dimorano dentro ciascuno di noi e si affacciano alla notizia di questo Giubileo Straordinario con la stanchezza di chi, alla fine, vorrebbe far giocare tutti al proprio gioco senza ammettere che la realtà — i giocattoli — non solo è nostra, ma è di un Altro. A tutte queste parti di noi non si può che augurare di ricominciare a sentire la vita, il dolore del vento e lo sconcerto della pioggia, la promessa del sole e la nostalgia del fuoco. I monaci irlandesi dicevano che questo autentico contatto con l’esistenza poteva avvenire soltanto attraverso un dono, il “dono delle lacrime”. Sono queste lacrime che, stasera, scendono dal mio volto con infinita gratitudine per il fatto che qualcuno abbia avuto il coraggio di riaprire quella Porta, la Porta della Misericordia. Sono io che stasera festeggio, perché non riesco a smettere di pensare che questo Giubileo, alla fine, sia stato indetto proprio per me, perché il mio cuore potesse — finalmente — ritornare a casa. Quella casa la cui Porta si trova proprio in piazza San Pietro.