Il Senato ha approvato a larghissima maggioranza (228 sì, 11 no e altrettanti astenuti), il ddl sul divorzio breve. Il voto quasi plebiscitario è stato reso possibile dallo scorporo della procedura di “divorzio immediato” che le frange più oltranziste avevano tentato di introdurre e che aveva reso il ddl inaccettabile a varie forze politiche. 



Ma il rischio di radicalizzazione non è affatto scongiurato. Il divorzio immediato troverà posto in un ddl autonomo a cui il capogruppo Pd in Senato, Luigi Zanda, ha assicurato il sostegno.

E comunque, il ddl approvato dovrà ripassare alla Camera ed ogni voto porta in sé qualche incognita anche se l’ok dei tanti senatori dovrebbe in qualche modo blindare l’impianto.



Anche perché lo stesso Zanda, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, ha sottolineato che si metterà mano al “divorzio Las Vegas” solo dopo il voto della Camera. I pasdaran del divorzio stiano dunque attenti a non tentare sgambetti perché per ingordigia rischiano di perdere tutto.

Allo stato attuale il testo prevede sei mesi tra separazione e divorzio, in caso di separazione consensuale, e dodici mesi quando la separazione è invece giudiziale. Si è ridotto il tempo di attesa ma si è salvato il criterio della pausa di riflessione. Un’affermazione di principio che ha un’importanza da non sottovalutare, perché in gioco c’è l’idea di famiglia e ci sono i rapporti tra la famiglia e lo Stato. Se la famiglia è un corpo intermedio privo di significato sociale non c’è remora a tagliare le procedure di scioglimento. Ma se la famiglia ed il matrimonio sono alla base del vivere comune, la crisi e lo scioglimento del rapporto riguardano lo Stato. E quella pausa di riflessione ha il senso di permettere ai coniugi di riflettere ancora una volta sulle possibilità di riconciliazione. 



Lo Stato, le istituzioni e la società nel suo insieme hanno interesse alla solidità delle famiglie. Era questo il senso dell’appello lanciato dal Forum delle associazioni familiari alla vigilia del voto. Appello per una volta ascoltato.

Ma lo Stato non deve limitarsi a verificare, attraverso l’intervento di un giudice e non di un semplice impiegato di anagrafe, che i coniugi stiano decidendo in coscienza, senza costrizioni o prevaricazioni, ma deve “anche saper accompagnare le coppie attraverso servizi consultoriali, percorsi di mediazione, di assistenza e di tutela sia dei coniugi sia degli eventuali figli. Quella pausa di riflessione non deve ridursi ad un inutile tempo burocratico, ma deve poter essere uno spazio utile per un estremo tentativo di ricomposizione o anche soltanto come sostegno per rendere meno traumatica la separazione”. 

In Italia, su 93mila separazioni registrate nel 2013, solo in 5.900 si è arrivati alla riconciliazione. I dati sono stati ricordati in aula anche da Rosanna Filippini, relatrice del ddl, che ha tentato di usarli per dimostrare che in fondo quell’attesa non serve a nulla. Ma intanto un 7 per cento non è affatto un risultato disprezzabile. Perché non immaginare che quella percentuale potrebbe essere ben maggiore, con un’offerta seria di mediazione?

Lo Stato non può essere solo un convitato di pietra o un arbitro che si limita a fissare la durata dei tempi di recupero. È parte interessata e deve quindi lavorare attivamente per aiutare le coppie, ove possibile, a ricostruire l’unità.