Caro Mohamed, o Jihadi John, come ti chiamano, e chissà se anche tu ti chiami così. In entrambi i casi, quello che sei diventato non ha nulla a che fare col tuo destino, checché ne dica il detto antico. Ti hanno dato da piccolo il nome del Profeta, per tanti e tanti fedeli islamici; uno pronto a combattere e a impiegare la violenza, senza mezze misure, ma eravamo nel IX secolo, sarebbe ingiusto giudicare l’avanzata dell’islam a colpi di scimitarra con i nostri occhi, anche perché spade e poi fucili e cannoni troppe volte nella storia si sono sentite tuonare, appellandosi al nome di un dio. 



Non posso pensare ragionevolmente che un miliardo e mezzo e più di musulmani credano che il massacro degli infedeli sia la loro ragione di vita, e la restaurazione del califfato. Non è vero, anche se la radicalizzazione della politica, la paura, il sospetto, ci spingono a pensarla così, e ci porteranno sempre di più a estremizzare l’odio, grazie a quelli come te. 



Ma anche il richiamo alla jihad è scorretto. Mi hanno spiegato che il termine significa “sforzo”, “lotta interiore”. La sua estensione all’opera dei tagliagole è impropria, blasfema. Chiunque lo faccia si pone fuori dall’islam. Tu, cosa credi? Pensi di operare per il bene della tua fede, o sei pagato da chi, per altri scopi, o sei più probabilmente un pazzo furioso? Sarai felice di avere l’onore delle cronache, di essere considerato in tutto il mondo una minaccia, un demone infernale, uno sterminatore. Forse sei cresciuto a supereroi: se non eri il vendicatore solitario, quello che combatteva dalla parte giusta, per avere visibilità dovevi stare dall’altra, e sfondare con la tua malvagità abissale, il joker insegna. 



Se ancora covi un barlume di lucidità, dirai che la parte sbagliata non è la tua. Ti avranno indottrinato sulle colpe degli occidentali, e tu lo eri, occidentale; ti avranno seminato veleni antichi, e tu, adolescente col cappellino da yankee, hai accettato di indossare il passamontagna nero, di annullare la tua personalità disturbata, di essere strumento di morte in mano a spietati assassini. 

Non mi fai pena, non fai pena a nessuno. Ci è data una scelta, ci è data una coscienza per scegliere. Tu hai deciso il male, la morte. Tu, roso e cattivo già coi tuoi coetanei, a scuola, che neppure le pietose attenzioni degli insegnanti sono riusciti a placare; tu, invischiato da anni con i terroristi hai pesato, operato per mettere bombe, ammazzare la gente per le cui strade camminavi, nelle cui aule avevi studiato, gli amici con cui forse giocavi a pallone, ascoltavi musica.

Tu hai scelto di dissacrare quella casetta naïve con le tendine bianche, che oggi appare in tutti i quotidiani, in tutti gli schermi tv, con la porta di legno, il corridoio d’ingresso di un cortiletto bagnato, sempre bagnato di pioggia; così tipica, così English, così adatta a Miss Marple, adorabile vecchina che li avrebbe stanati e picchiati con le sue mani, quando si era ancora in tempo, quelli come te, altro che i moderni servizi di Sua Maestà. 

La banalità del male. Anche gli aguzzini nazisti erano carini coi loro figli, prima di addormentarli col cianuro, anche chi abitava nei lager ascoltava i violini e regalava crinoline alla fidanzata. Ti hanno studiato bene, si è capito subito che non eri un tipo qualsiasi, e poi, quando sei saltato fuori tra la genia di Al Quaeda, anche i servizi britannici ti tenevano d’occhio. Troppo poco: eri implicato nell’attentato vile alla metropolitana di Londra, hai cercato di fuggire in Tanzania, per addestrarti, ti hanno fermato, ma non hanno capito. Che la tua rabbia doveva trovare uno sfogo, che all’inizio volevi rivolgere contro di te, ucciderti, perché no sopportavi più una vita disperata da braccato. 

Non l’hai fatto, e ci viene da dire “peccato”. Non perché non amiamo la vita, noi. Ma per il male che avresti potuto non fare. Per la dannazione che avresti potuto forse abbreviare. Vorremmo dirti tu sia maledetto, e non servirebbe a nulla, perché già lo sei; ma noi abbiamo solo parole normali, l’abisso del male non riusciamo ad esprimerlo. 

Chiediamo senza risposta che senso abbia la tua vita, e tutto il dolore che susciti; fatichiamo a capirlo per le bestie feroci, ma almeno ci consoliamo con la legge di natura, la brama del cibo, la mancanza di ragione. Gli uomini dovrebbero averli, ragione e cuore. Te lo sei mai chiesto? Cosa speri di ottenere, mentre sgozzi le tue vittime, quale speranza, quale pace, quale amore ti immagini. 

Ma tu non pensi, non sei più uomo. Hai scelto di morire odiato, ammazzato senza pena, abbandonato da tutti, perché così accadrà. Li hai visti i tiranni, i criminali, che fine fanno. Tu, che ci rendi nemici di altri uomini di altra fede; tu, che ci rendi feroci per cercare te e quelli come te, e ci obblighi alla violenza, per fermarne una maggiore; tu, che hai dei parenti, che ora vivono l’inferno in terra per causa tua; tu non esisti, sei come la peste, o una fiera impazzita, nessuno ti piangerà. 

Non vogliamo più vederti, sentirti, leggerti. Che quel briciolo di etica che ancora resiste nella comunicazione muova a dimenticarti, a non darti spazio, mai più. Non ci interessi, non vogliamo più sentir parlare di te. Parlateci di vampiri, zombie e altri orrori malefici, che almeno sono irreali.  La nostra libera informazione, la nostra attenta capacità di analisi dovevano darsi da fare prima. Con freddezza e lucidità, senza buonismi, senza tentennamenti, bisogna fermarli subito, i pazzi criminali. Tu sei già morto. Eternamente morto.