Settantuno anni fa avveniva l’attentato di via Rasella a Roma, dove una bomba piazzata da un gruppo di partigiani causò la morte di 33 soldati appartenenti alle forze armate tedesche e di due civili di nazionalità italiana, tra cui un bambino di dodici anni. L’azione, definita in una sentenza della Cassazione un “legittimo atto di guerra”, è ancora oggi è al centro di aspre polemiche tra storici e opinione pubblica: l’attacco venne organizzato e attuato da appartenenti ai GAP, Gruppi di Azione Patriottica di ispirazione comunista, provocando la durissima rappresaglia dei nazisti consumata con l’eccidio delle Fosse Ardeatine in cui vennero uccise 335 persone. Ma cosa accadde in Via Rasella? Il 23 marzo di 71 anni fa membri delle Brigate Garibaldi, nate e dirette in clandestinità dal PCI, misero in atto un attentato contro l’undicesima compagnia del III battaglione del Polizeiregiment “Bozen”, appartenente alla Ordnungspolizei tedesca. In un bidone della spazzatura venne posto un ordigno e alcuni partigiani si nascosero nelle vie vicine per colpire i soldati tedeschi subito dopo l’esplosione con altre granate. Rosario Bentivegna, studente di medicina ventenne, si occupò di sistemare l’ordigno. Alle 15.30, con circa 30 minuti di ritardo su quelli che erano i loro soliti orari di passaggio, i soldati del reggimento Bozen passarono per via Rasella e 33 non ne uscirono mai più, venendo uccisi dalla violenta esplosione. Nove morirono nei giorni successivi e sei furono i civili italiani che persero la vita (due uccisi dalla bomba, altri quattro caddero sotto il fuoco di reazione tedesco).



Questa azione, definita da un agente segreto americano inutile ma eseguita perfettamente, non incontrò il favore della popolazione: venive ritenuta inutile, visto che la guerra vedeva i tedeschi ormai prossimi alla sconfitta. Quando Hitler seppe dell’attacco chiese che per rappresaglia venissero uccisi 50 cittadini italiani per ogni soldato morto nell’attacco. Alla fine fu deciso che il rapporto sarebbe stato di 10 italiani per ogni soldato ucciso.



La scelta di coloro che sarebbero state vittime della rappresaglia che sarebbe passata alla storia come la strage delle Fosse Ardeatine avvenne in particolare tra i cittadini ebrei italiani che ancora non erano stati portati nei campi di concentramento, tra coloro che erano in attesa di fucilazione o erano stati condannati al carcere a vita e gli esponenti della Resistenza che erano finiti nelle mani delle forze naziste. Tuttavia in questo modo non si riuscì ad arrivare a coprire il numero di persone che era necessario perchè la rappresaglia si potesse dire completa e quindi i tedeschi chiesero una lista di nomi ai rappresentanti romani della Repubblica di Salò e alla fine furono rastrellate 335 persone, cinque in più di quelle che sarebbero dovute essere le vittime della vendetta. A compiere la rappresaglia furono le SS, perchè altri reparti, tra cui quello che era stato oggetto dell’attacco, si rifiutarono. Alla fine fu Kappler, nome passato alla storia come uno dei più noti tra le fila dei nazisti, a prendersi la responsabilità di compiere quello che per gli esperti di diritto internazionale e di diritto umanitario fu un crimine di guerra.



Alcuni parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine hanno in seguito criticato la decisione di eseguire l’attentato di Via Rasella: tra le polemiche di questi ultimi anni si ricorda quella tra il defunto Giorgio Bocca, che ha sempre difeso l’attacco definendolo “un atto contro una potenza occupante”, e Giampaolo Pansa, che nei propri scritti più recenti ha parlato di un atto “terroristico, voluto dal PCI per riaffermare la propria egemonia all’interno della Resistenza”.