Papa Francesco è entrato a Napoli, una città mai facile, mai triste, come l’ha definita, afferrandone intuitivamente il carattere in immediata sintonia con il popolo che l’accoglieva, da Scampia. Un quartiere simbolo delle periferie del mondo che Francesco ha voluto dare come missione alla sua Chiesa. Magari meno di tante favelas che i suoi occhi conoscono, e che noi neanche immaginiamo, ma non di meno un simbolo — delle periferie e della periferia sociale, umana, morale, che c’è, appena fuori le mura leonine, nel paese, l’Italia, che il Vaticano ospita. Un quartiere in cui venticinque anni fa volle andare Giovanni Paolo II per scuoterne la condizione, e che è ancora lì da essere visitato per un Papa che venticinque anni dopo torna a Napoli. Anzi da doverci cominciare la sua visita. Un obbligo, se non si vuole voltare lo sguardo da un’altra parte dalla difficile condizione della città. 



Perché Scampia è il segno da venticinque anni di che cosa significhi socialmente “corruzione”, uno stato corrotto di rapporti sociali, economici, morali, in cui la “vita buona” dei tanti, dei tantissimi che ogni mattina si alzano per provare a viverla, è costretta a esercitarsi spesso come pura resistenza. A Scampia incoraggiando alla speranza operosa che non si rassegna tutti, élite, gente comune, giovani, in una chiara sollecitazione “politica” al bene comune, che abbia nelle istituzioni il suo  naturale presidio, Francesco ha colto di Napoli questa difficoltà, quest’esercizio quotidiano di “resistenza” della gente comune a un malessere sociale che non è più solo economico, ma intriso di sofferenza demoralizzata per un degrado della vita pubblica dove ogni giorno si guadagnano le prime pagine dei giornali fenomeni di corruzione di cui la politica sembra aver perso il controllo, lasciando alla magistratura una supplenza di cui una giurisdizione ordinata dovrebbe, e forse vorrebbe, ben poter fare a meno. 



Si spiega così come la sollecitazione alla speranza operosa di Scampia sia diventata davanti a Napoli, assiepata a piazza del Plebiscito, la denuncia forte della corruzione che “spuzza”, dove spagnoleggiando nel linguaggio Francesco ha voluto invertire il luogo comune in cui troppi, in alto e in basso, con sofisticati arzigogoli sociologici, politici, giuridici, si adagiano: “pecunia non olet“. Per Francesco, i modi con cui li fai “i soldi” lasciano una traccia, eccome, nella vita del cristiano e della società. Puzza è brutto termine, ma richiama la questione, il marcio che incancrenisce o può incancrenire la società, che la “corrompe”, che la disgrega dall’interno. 



Per farsi capire anche da chi vi si adagia magari per necessità, con parole semplici da missionario Francesco ha ricordato che il pane così guadagnato oggi, è la fame di domani. E che il conto sociale della corruzione lo pagano i poveri. Un tema ricorrente del magistero papale, legato all’idea strutturata della sua visione dei processi economici e sociali in atto, che è la corruzione, l’avidità che lucra sull’inerzia a costruire il bene comune, a generare tanta parte delle periferie del mondo, o ad aggravarne la condizione la dove si sono generate per ragioni storiche, sociali, economiche. Le periferie sociali del degrado materiale e morale, di una lontananza da una “vita buona”, che è fatto pubblico e vicenda individuale, che Francesco anche a Napoli ha posto al centro del suo discorso, ancorandolo come sempre alla profezia della misericordia: che Gesù sta cercando tutti, che “è possibile tornare alla vita onesta”, per tutti. 

Un Papa lo dice così. Chi lo vuole ascoltare, sa come si fa. E’ abbastanza intuitivo. Il punto è tornare a farne un discorso pubblico, più di quanto oggi sia. E anche questo, se vogliamo, ognuno nelle sue responsabilità, sappiamo come si fa.

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