Prima che il sipario cali sul dramma dell’aereo caduto sui monti dell’Alta Provenza e la dimenticanza scenda come la nebbia su una tragedia che coinvolge tante famiglie, non appare inutile riportare due frasi che le cronache televisive hanno registrato.

La prima è del direttore generale della compagnia aerea, lui pure ex-pilota: “Purtroppo talvolta abbiamo a che fare con l’imponderabile”. Che sia stata detta per giustificare in qualche modo il corretto operato della sua azienda non interessa granché. E’ comprensibile. 



Prese in sé queste parole rivelano una grande verità, alla quale si accede malvolentieri. E’ una resa al limite dell’uomo, che in fatti di pubblico dominio eppure così oscuri appare come l’unica spiegazione ragionevole, seppure molto dolorosa. Non bastano le misure di sicurezza volte a sventare il pericolo esterno, non bastano le verifiche preventive dello stato di salute del personale di bordo e neppure future direttive. Il nemico è più dentro e si annida nell’abisso del cuore umano, così impossibile da scandagliare anche per gli specialisti. Chi se la sente di ascrivere, come si va facendo, a una depressione rilevata a suo tempo, o a una più recente delusione d’amore, un atto così lucido da portare alla morte 150 persone? Non solo la porta della cabina di comando è restata chiusa dal di dentro, anche la soglia di quel cuore resterà per sempre sigillata, non più varcabile ormai se non agli occhi di Dio.



La seconda frase è stata pronunciata dal responsabile dei soccorsi della Croce Rossa accorsi sul luogo della disgrazia. Cercando di spiegare le modalità di conforto ai parenti delle vittime, egli ha detto: “Ognuno vive il dolore come può”. Anche questa è una parola vera; anche questa svela la diversità nell’affrontare il dolore e dunque il rispetto che deve venirgli offerto. Soprattutto anche questa rivela il limite del cuore umano, così desideroso di essere felice e così provato dal male che lo insidia.

Una piccola cosa. In molti casi come questo, anche di portata numericamente minore, quando si parla dei soccorritori vengono nominati sempre volontari e psicologi. E si capisce bene perché. 



Ma non si fa cenno ai sacerdoti. Forse non sono essi ritenuti in grado di affrontare la sofferenza e il lutto? Forse non sono essi specialisti a sufficienza dei meccanismi della mente? Eppure la Confessione, che è uno dei principali atti del loro ministero, li pone a contatto con la miseria umana, con la nudità dell’anima che chiede perdono. Ciò che si dice nei media è tutto, oppure ancora una volta il nome di Dio, o di chi rimanda a Dio, è sottaciuto? La fede un fatto privato, non rilevante come notizia?

Chi con il tempo potrà consolare tanto dolore, chi ha portato nell’abisso della morte tutto il male di cui siamo capaci e l’ha offerto al Padre, noi cristiani sappiamo chi è: il Signore risorto nella Pasqua che si avvicina. Con tutta la delicatezza di cui siamo capaci, non possiamo non guardarlo e non indicarlo agli occhi pieni di lacrime.

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