La verità che emerge dalla tragedia dell’Airbus della Germanwings, schiantatosi martedì mattina sulle Alpi francesi, è quanto mai amara e dolorosa. Il copilota tedesco del velivolo, Andreas Lubitz, 27 anni, ha deliberatamente e lucidamente voluto — fino all’ultimo — far precipitare l’aereo su quelle montagne. La notizia è stata di quelle capaci di togliere il fiato e, benché le motivazioni di una tale decisione siano ancora da appurare, i “coriandoli” che le immagini ci mostrano sulla nuda roccia lasciano attoniti e interdetti a fronte di un fatto per cui non ha alcun senso cercare altri responsabili o altri colpevoli. 



La vicenda, al netto di ciò che riscontrerà la magistratura, acquista così un forte valore simbolico e quelle centocinquanta vite scomparse nella brezza dell’Alta Provenza ci appaiono improvvisamente come il segno — diceva Gaber — di qualcosa che “forse stiamo per capire”. L’Airbus A320 della costola low cost della Lufthansa sembra infatti sempre di più il Titanic di questo nostro secolo: come il naufragio della nave salpata da Southampton rappresentò per gli europei il naufragio della Belle Époque e della fiducia incondizionata nel futuro e nel progresso, così lo schianto di quel volo ci appare oggi come lo schianto di un’intera epoca in cui — sempre in Europa — si è creduto che l’uomo fosse ormai un “mistero risolto” e che bastassero alcuni test attitudinali, per altro certamente di altissima professionalità, per conoscerlo e dominarlo. 



Purtroppo non è così: nel giro di ottanta giorni Merkel e Hollande si sono trovati più volte alle prese con “umanità fuori controllo” capaci di uccidere a Parigi, di portare il terrore in Libia o a Tunisi e di farsi precipitare nei cieli di Francia. Nessun addestramento o principio democratico li ha fermati, nessun sistema di controllo li ha individuati e bloccati nelle loro azioni criminose. C’è, in tutto questo, qualcosa che va al di là dell’Isis e di qualunque altra giustificazione morale o psicologica, qualcosa che ha le sue radici profonde nell’occidente e che fa diventare gli stessi occidentali carnefici del loro mondo. 



Ognuno degli episodi di questi ultimi mesi, infatti, è sorto nella libertà e nel cuore di alcuni esseri umani, nell’Io di individui ostaggio dei propri pensieri e della propria mente, nell’animo di gente che, ultimamente, hanno la stessa mia statura e stoffa umana: quello che è successo a loro, insomma, è qualcosa che riguarda me, che è possibile che accada a me. Oggi più che mai ci troviamo di fronte ad un’umanità intimamente malata che continua a dare valore di verità a ciò che pensa, a ciò che sente e a ciò che vuole, un’umanità che pretende che la propria opinione e la propria percezione delle cose siano l’unico argine per il proprio agire, un’umanità che rivendica i suoi bisogni, ma che è sempre più incapace di ascoltare, accogliere ed incontrare davvero i bisogni degli altri. 

S’avanza dunque dentro di noi un’umanità crudele, talmente occupata dal proprio dolore da non riuscire più a percepire quello di chi sta accanto e a vivere l’altro — ogni altro — come un ostacolo. Per i giornali e i media è facile attribuire la colpa di tutto questo ad una fazione, ad un’etnia o a un disturbo patologico, è difficilissimo — invece — riconoscere in quello che sta accadendo un ultimo disagio del cuore, un ultimo urlo che trova solo nella rabbia e nella violenza la sua vera espressione. 

Questo, in effetti, comporterebbe prendere coscienza di un bisogno più grande che nessuna legge o nessun diritto potrà mai colmare: il bisogno di un Altro, di un Qualcuno, che ci salvi. Dalla vita domestica al rapporto con i colleghi di lavoro, dall’amore alla politica, tutto sembra segnato da un’ultima rabbia e da un’ultima paura verso la vita. I pensieri e le ideologie diventano gli abili carcerieri della nostra felicità e la vita di chi ci sta accanto si trasforma in qualcosa “a nostra disposizione” sia che si tratti di una donna, di un bambino o della vita di centocinquanta persone. 

Il vero tema del nostro tempo, allora, non è il male, e neppure il dolore, ma la salvezza, il bisogno di essere salvati da tutta questa crudeltà che si fa strada e che ci invade. L’uomo, però, non si salva da solo. Occorre che Uno venga e assuma su di sé il grido del cuore. Senza Redenzione, senza l’atto di “una qualche parola rivelata di un Dio”, i fatti rimarranno prigionieri di sterili analisi ideologiche o psicologiche che attribuiranno a “facili nemici” la causa di comportamenti e scelte che invece derivano da un disagio più profondo che nessun capriccio può davvero colmare, ossia il bisogno di sapere se siamo amati, se qualcuno davvero ci vuole, se qualcuno — almeno — ci può perdonare. 

Su quella montagna si sono schiantate non solo centocinquanta vite, ma tutto il desiderio che abbiamo di vivere, di esserci, di sperimentare felicità. Su quel monte si è schiantato l’Occidente e davvero stasera mi domando se tutto quel sangue innocente grondi solo dalle mani di Andreas Lubitz o, in verità, non sia anche un po’ dentro le parole e gli atteggiamenti di ciascuno di noi. Pronti a giudicare tutto, pronti a piangere in piazza e a “corteggiare morbosamente” il dolore degli altri, ma mai pronti a guadarci allo specchio e ad ammettere che siamo noi i primi che hanno realmente bisogno di essere redenti.

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