Quella piazza ha sempre significato molto per il popolo di Comunione e liberazione. E’ il luogo dell’offerta e della verifica. Dell’amore e del cuore, delle carezze e degli inchini, e anche degli schiaffi. Quelle che ti dà un Padre con tutto l’amore del mondo, magari piangendo e urlando con te. Perché così fa uno che ti vuol bene. 



Ieri in piazza san Pietro si sono ritrovate 80mila persone arrivate da 47 nazioni del pianeta: 5 continenti e tante belle facce, serie, partecipi, consapevoli. “Coscienziose” verrebbe da dire, nel senso di completamente presenti al momento che si andava vivendo. Erano tutti figli di monsignor Luigi Giussani, il prete brianzolo che 60 anni fa, nel liceo Berchet di Milano, fondava il movimento che tanto avrebbe influito nella vita ecclesiale, culturale, sociale e politica del Paese. Comunione, come quella visibile tra i due colonnati del Bernini e gran parte di via della Conciliazione, e liberazione, che è molto di più di ingegno, autodeterminazione e arbitrio, così tanto di più che ogni volta è necessario ricordarlo. E’ anche per questo che da tutta Italia, e dagli angoli del mondo dove il metodo educativo di Giussani ha plasmato anime nella fede, sono arrivati sacerdoti, famiglie, giovani e anziani, bambini e religiose, vescovi e amici. Tutti a Roma per guardare negli occhi Francesco, “mendicare” da lui una forza nuova e ritrovare il “primo amore”. 



Cielo terso, celeste, bellissimo e vento sferzante. L’immagine più vera per raccontare quello che è accaduto nella mattinata di ieri, la sintesi perfetta dell’alchimia chesi è stabilita tra Bergoglio e i “ciellini”. La chiarezza di un rapporto inevitabile e imprescindibile, quello tra il successore di Pietro e una delle più complesse (non neghiamolo), interessanti e discusse esperienze ecclesiali del dopo Concilio. La “celestiale” — nel senso di orientata all’eternità — posizione di un popolo pronto a seguire il suo Pastore. La bellissima e commovente paternità avvertita da chiunque guardava alla basilica illuminata dal sole. E poi gli schiaffi, le parole affilate di Francesco, capaci di scavare ed estrarre tutta la meschinità di cui a volte gli uomini sono capaci. Una folata sembra aver scosso l’albero piantato da Giussani, una bella scrollata che ha fatto vibrare rami secchi e foglie morte per non indebolire “quell’impeto di vita” generato dal suo genio.



Ero in piazza come molti, lavoravo, osservavo e ascoltavo. Ho visto le lacrime e le facce tese, gli abbracci e i sorrisi. Ho percepito il desiderio di appartenere “senza se e senza ma” alla Chiesa, come ha insegnato con tutta la sua vita don Giussani, e ho colto la portata del gesto con cui don Julián ha messo il movimento nelle mani di Francesco, l’umiltà con cui ha dichiarato le fragilità e le cadute, chiedendo di essere guidato alla riscoperta della passione per l’uomo e per la realtà che è sempre stata del prete brianzolo, la totale disponibilità a riorientare la rotta, la gratitudine con cui lui insieme agli 80mila e oltre di piazza san Pietro ha accolto le parole del pontefice. 

Che vuol bene ai ciellini, altrimenti non avrebbe sprecato tempo a spiegare con passione, amore e ammiccamenti vari cosa fare, come vivere il carisma del fondatore a dieci anni dalla morte, come evitare le trappole che il complesso del figlio maggiore ogni tanto fa affiorare.

Ieri era lì, il Giuss, tra i suoi figli, presente come non mai, proprio nella parole del Papa. E’ questo il regalo più grande che ha fatto Bergoglio al popolo di Comunione e liberazione, restituire in tutta la sua autenticità Giussani ai suoi. Ha fatto risplendere l’esperienza originale, ricordando che è solo nell’abbraccio misericordioso che viene voglia di cambiare, che la morale cristiana non è uno sforzo volontaristico ma una risposta commossa ad un amore “sorprendente, imprevedibile”, addirittura “ingiusto” per i criteri umani di “Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e mi vuole bene lo stesso, mi stima, mi chiama di nuovo, spera in me, attende da me”. 

Impossibile non tornare a certe lezioni di Giussani, quelle di recente fatte palpitare nei gesti, nella voce roca, nelle immagini sgranate di filmati d’epoca. Ieri il richiamo a “decentrarsi”, a non fossilizzare il Carisma, a non farne una “bottiglia di acqua distillata”, certi ammonimenti a non trasformare l’immensa eredità ricevuta in un “museo di ricordi”, in un mucchio di ceneri inutili hanno fatto risentire tutto il peso di una responsabilità a volte risucchiata da formalità e intellettualismi. “Attenti all’autoreferenzialità” ha detto Bergoglio: è stato il momento più duro, quando ha fustigato la “spiritualità di etichetta”, quell'”io sono di Cl” che a volte ha sbarrato porte e impedito la comunione. 

Non è il momento di guardarci allo specchio, ha invitato il Papa. Parole severe, eppure applauditissime. Segno che c’è un popolo che sente di dover “uscire”, come chiede Francesco, di andare lontano, di portare la bellezza e la grandezza del dono ricevuto ad altri. Un popolo che vuole mettersi in cammino, nella certezza che “la strada è bella”. Un popolo che da ieri vuole più bene al suo Papa. E che magari deciderà di ripartire ancora una volta da quella piazza. 

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