Papa Francesco parla sempre al presente e nel quotidiano immediato. Il suo discorso va ascoltato stando nella piazza, accanto a quelle persone di ogni età che, come tutti gli altri pellegrini, attendono per ore con una pazienza inspiegabile. Ma che, come non sempre accade, sanno recitare la liturgia delle ore a cori alterni, sanno cantare con attenzione e impegno, anche quando sono in decine di migliaia e sanno restare in silenzioso raccoglimento mentre la corale intona quelle polifonie di Palestrina, o di Antonio da S. Germano che hanno imparato a riconoscere ed amare nel corso degli annuali esercizi spirituali.
Papa Francesco va ascoltato così: tra questi 80mila che non ci tengono alle coreografie televisive, né salutano le telecamere quando sono inquadrati, anzi, nemmeno si cercano sul maxischermo: si chiama abitudine al raccoglimento ed alla preghiera. È sulla folla di questo movimento di spiritualità, di questa realtà ecclesiale che si è scavata un percorso di educazione all’introspezione critica, alla frequentazione costante della narrazione evangelica, con tutta la “carnalità dell’anima mortale”, cioè con tutta la ricchezza e i limiti di una spiritualità che non liquida l’umano ma se lo porta dietro, che penetra il discorso di Papa Francesco.
Tutto questo Papa Bergoglio lo ha compreso molto bene quando dichiara, con semplicità disarmante, come la prima ragione della sua riconoscenza per monsignor Luigi Giussani risieda nel “bene che quest’uomo ha fatto a me e alla mia vita sacerdotale”. Così come quando, riprendendo il nucleo fondativo del pensiero di Giussani per il quale “tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, comincia con un incontro”, riproduce la stessa ermeneutica del fondatore di Comunione e Liberazione, che esortava a “rivivere” le vicende umane del vangelo, prima ancora di interpretarle sul piano esegetico: “Andrea, Giovanni, Simone: si sentirono guardati fin nel profondo, conosciuti intimamente, e questo generò loro una sorpresa, uno stupore che, immediatamente, li fece sentire legati a Lui… “. Nel solco di questa ricostruzione, Papa Francesco aggiunge un’immagine che sembra proseguire il discorso di don Giussani su Cristo “mendicante del cuore dell’uomo”. Cristo, infatti, per il Papa “ci precede sempre; e quando noi arriviamo, Lui stava già aspettando. Lui è come il fiore del mandorlo: è quello che fiorisce per primo, e annuncia la primavera”. C’è sintonia immediata e profonda tra questo pontefice, che traduce così, nella sua immediatezza, la primavera effettiva che impera sulla piazza di Pietro, e questa folla che lo ascolta in silenzio.
Ma ce ancora più sintonia quando Papa Francesco aggiunge il suo personale contributo educativo dichiarando che “…non si può capire questa dinamica dell’incontro che suscita lo stupore e l’adesione senza la misericordia. Solo chi è stato accarezzato dalla tenerezza della misericordia, conosce veramente il Signore”.
C’è qui una vicinanza spontanea e del tutto palpabile con la sensibilità di don Giussani quando Papa Francesco arriva a dichiarare che “il luogo privilegiato dell’incontro è la carezza della misericordia di Gesù Cristo verso il mio peccato … il luogo privilegiato dell’incontro con Gesù Cristo è il mio peccato”. La morale cristiana è quindi la “risposta commossa di fronte ad una misericordia sorprendente … di Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e mi vuole bene lo stesso, mi stima, mi abbraccia, mi chiama di nuovo”.
Diventa allora fondamentale la coscienza dei propri peccati, dei limiti umani della pesantezza dell’umano: è il passo decisivo verso la grazia dell’abbraccio di Cristo.
Occorre allora cercarli i propri peccati per vivere la grazia, anche là dove si nascondono, ripieni di buone intenzioni. E il peccato più insidioso, per Papa Francesco, è proprio quello di smarrire “la freschezza e la vitalità” del messaggio originario, quello lanciato da don Giussani sessant’anni fa. La provocazione qui è diretta: “il riferimento all’eredità che vi ha lasciato don Giussani non può ridursi ad un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta”. Occorre recuperare “il fuoco vivo”. Ed un tale recupero implica l’andare, non certo il fermare a contemplarsi.
Per un movimento educato a guardarsi dentro non c’è invito migliore, né mandato più chiaro e provocazione più potente di quella appena formulata dal Papa. Ha parlato a gente che ama “la strada buona” e che, proprio in queste parole, si è immediatamente riconosciuta come una realtà ecclesiale in cammino, proprio quello che si impegna ad essere.