Nei tragici avvenimenti di ieri, al tribunale di Milano, molti particolari concorrono a trasformare uno scarno, tragico bollettino di guerra in un romanzo complesso e di difficile decifrazione.
Il crimine è crimine, lo sappiamo, e sappiamo anche che esiste un baratro morale ed esistenziale tra “premere” e “non premere” il grilletto. Alla fine, esiste in tutti i casi una decisione individuale la cui centralità non può essere elusa.
Queste considerazioni, tuttavia, non ci esimono dalla ricerca di un ordine nei fatti, né ci permettono di tagliar corto, come se dire “è un assassino” potesse chiudere ogni discorso.
Vorrei enumerare allora, qui, alcuni degli elementi che alla fine rendono complicata la trama di questa tragedia — che non è affatto una tragedia milanese, ma piuttosto la tragedia di un’epoca che si è chiusa troppo in fretta, anzi: la tragedia della fretta.
A cominciare dal mestiere esercitato dall’assassino, quello dell’immobiliarista: un mestiere che ha conosciuto anni d’oro, ha permesso guadagni rapidi e ingenti per poi sgonfiarsi nel giro di pochi anni, lasciando sul campo di battaglia molte vittime, anche eccellenti.
Potremmo anche domandarci che mestiere pensavano di svolgere i poliziotti addetti alla sicurezza, così bravi a prendere a sberle un extracomunitario e a rivalersi sui deboli. Giustamente Renzi ha domandato come avesse fatto, questo sig. Giardiello, a introdurre la sua arma a Palazzo di Giustizia.
Potremmo considerare le biografie non solo dell’assassino ma anche delle vittime, per cercare di definire nel modo meno approssimativo possibile i rapporti che intercorrevano tra loro, così da capire meglio quel sentimento di persecuzione che covava da tempo nella mente di Giardiello (per il quale questa non era la prima né la principale causa di fallimento) fino a condurlo sulla soglia del terribile dilemma.
Insomma, gli ingredienti, i fili che vengono a formare quel groppo indistricabile da cui può nascere un crimine erano tanti e diversi, ieri a Milano.
Poi, però, c’è il precipizio, e sul precipizio c’è poco da dire. Si possono studiare i precedenti, ma tra quei precedenti e l’atto c’è uno iato, un salto logico, una sconnessione che nessuno può aggiustare, che è lì da sempre e forse per sempre.
Certo, può (e sottolineo può) essere che il miraggio dei soldi facili, l’abitudine alle scorciatoie abbiano generato, al momento della difficoltà, una incapacità di controllo, e che quella del crimine (come quella del suicidio) abbia costituito per l’ennesima volta la scelta più facile. Può essere che stiamo parlando di uomini incapaci di stare a lungo di fronte alla realtà dei fatti.
Ma la nostra grande letteratura, pietosa per vocazione, ha cercato di scendere, magari per un breve tratto, dentro questo precipizio. Come nel più importante romanzo italiano del secolo scorso, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Carlo Emilio Gadda, o come quel capolavoro fulminante che è il breve atto unico L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello, dove si leggono queste parole:
“Ho bisogno di starmene dietro le vetrine delle botteghe, io, ad ammirare la bravura dei giovani di negozio. Perché lei capisce, se mi si fa un momento di vuoto dentro… lei capisce, posso ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco… cavare la rivoltella e ammazzare uno che come lei, per disgrazia, abbia perduto il treno…”
Il vuoto dentro! Quel vuoto capace di trasformare il mondo intero in una cosa vuota, così che chiunque può uccidere come niente, perché a questo si è ridotto l’altro, colpevole o innocente che sia: a un niente.
Il mio augurio è che la Giustizia — giudici, avvocati, tribunali, processi — possa far propria la pietà dei grandi scrittori: quella pietà che non spiega, non giustifica, ma soltanto accetta di non fuggire, e di soffermarsi un istante di più davanti al precipizio della realtà.