C’è forse solo una cosa che è più umana del silenzio sulle vittime: è la capacità di stare in silenzio di fronte ai carnefici. Solo che stavolta, davanti a Claudio Giardiello — il killer del Palazzo di giustizia di Milano —, è difficile tacere. Non perché egli sia un carnefice diverso dagli altri, ma perché l’incalzare delle notizie lo descrive come un folle che ha trovato al Tribunale di Milano una “falla nel sistema”. E così, tra le dichiarazioni di un ministro e una ricostruzione degli inquirenti, è proprio la questione sicurezza a prendersi tutti i riflettori relegando lui, il carnefice, in un angolo. Evitando a tutti noi, con questa polemica sui tesserini e sui metal detector, la domanda più insidiosa, ma anche quella più necessaria: perché lo ha fatto?



Tutti chiamiamo quella di Giardiello “follia” perché tutti avvertiamo che la parola “vendetta” è decisamente sproporzionata per il gesto compiuto, troppo inadeguata per la mattanza eseguita, troppo piccola per lo sgomento provocato. Eppure anche “follia” rientra fra le parole facili da usare, fra quelle comode che ti evitano tante questioni e che ti consentono di dimenticare l’antica verità che — da Caino in poi — riguarda tutti i carnefici: il fatto che essi, in uno o più tratti, ci assomiglino. Giardiello è un nostro fratello, è uno come noi, e per questo la sua vendetta e la sua follia ci spaventano, perché in qualche misura fanno parte di noi, del nostro stesso cuore. 



Stare di fronte a questo non è facile: la sicurezza infatti, certamente importante e necessaria, passa così in secondo piano e affiorano alla mente altre considerazioni, altre riflessioni che ci portano verso Adreas Lubitz, verso il marito che uccide la moglie e poi si spara, verso l’imprenditore che si suicida: lentamente si compone un quadro che, in modo certamente drammatico, ci fa capire che quando la realtà stringe, si fa dura, l’uomo — qualunque uomo — oggi non regge più. 

Mi vengono in mente i ragazzi “stressati” che abbandonano gli studi, le coppie “oppresse” che si separano, tutti coloro che dinnanzi al dolore di un proprio caro scelgono di “dare la morte” o di fuggire. La Madonna, al contrario, sotto la Croce ha scelto di “stare”, di accogliere la realtà fra le lacrime e di trasformare ogni legittima recriminazione in autentica preghiera, nella vera attesa che Qualcuno, un Altro, intervenga e ricominci. Siamo davvero umani non quando ci tratteniamo o ci lasciamo andare, ma quando guardiamo e rispondiamo alla realtà, a quello che davvero accade di fronte a noi. Il resto, cari amici, è solo dolore impazzito, è solo l’ultimo atto di un uomo disperato che vuole risolvere, senza chiedere niente a Nessuno, il dramma del proprio cuore. 



Di fronte a Giardiello abbiamo proprio bisogno di “decentrarci”, di smetterla di giustificare o di provare a rimediare per ammettere che — in definitiva — nessuna soluzione ci può salvare, nessuna apparente aggregazione o sistema perfetto ci può realmente soccorrere, ma solo la resa del cuore all’innegabile domanda che ci assale e che nemmeno un’ostinata distrazione ci può togliere: la domanda di un Altro, di Uno che venga e che ricominci, che ci ridesti da tutto questo dolore per farci ritrovare ciò che più ci manca, ossia la passione e la compassione per la vita di chi ci sta a fianco, di chi ci respira vicino. Una vita che non è “a nostra disposizione”, che non porta soluzioni, ma che è solo gratuita e imprevedibile compagnia. 

L’amara verità è che gli altri non hanno alcuna colpa per il nostro dolore o per la nostra sofferenza e, anche quando essi stessi li causano, occorre ammettere che essi fanno semplicemente in modo che quel dolore emerga, che venga fuori. Il dolore, infatti, c’è, esiste, e appartiene alla realtà. A volte lo fa affiorare un fallimento, a volte una storia d’amore che finisce, a volte una malattia, un lutto o una parola non detta. Ma gli altri non c’entrano: il dolore è dentro di noi. Ed è a quel dolore che dobbiamo guardare, è da quel dolore che dobbiamo ripartire. 

Perché, alla fine, non esistono colpevoli, ma solo responsabili. E questo per noi è tremendo e fa diventare la strage di Milano non un episodio di “falla nella sicurezza”, ma il segno di qualcos’altro di più tragico, di più inquietante: il segno di una società che ha smesso di educare, di un popolo che non è più capace di stare e che — proprio per questo — sembra sappia solo uccidere. È questo che si è manifestato a Milano giovedì, è questo quello che tutti vogliono tacere, è questa la drammatica realtà che ci interpella e ci sfida. Quella stessa realtà che, ogni giorno, ci attende dietro ad ogni porta e che ci costringe a dire, come il poeta greco, “Mandaci, o Padre Zeus, il miracolo di un cambiamento”.