I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo con le loro sentenze stanno cercando di  ripristinare in Italia i principi dello stato di diritto. Essi escludono la retroattività e le prevedibilità della legge penale. L’art. 7 della Convenzione europea stabilisce che non può esserci una pena se questa non viene prevista da una norma in vigore nel momento in cui sarebbero stati commessi i fatti contestati come punibili, cioè illeciti.



Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non è esemplare per chiarezza e rigore. Direi anzi che è una norma da guerra civile, da stato di emergenza. Andrebbe, quindi, riformulato munendolo della chiarezza e del rispetto dei diritti che non sempre sembra osservare. Esso fu l’esito di un’evoluzione della giurisprudenza alla fine degli anni Ottanta che si consolidò solo nel 1994. Ebbene, la data in cui le accuse contro Bruno Contrada vennero formulate ed egli venne arrestato è il 24 dicembre 1992.



In quel periodo il concorso esterno in associazione mafiosa non era disciplinato dal codice penale. Questo prevedeva l’articolo 416 bis e l’articolo 110, fondendo i quali Giovanni Falcone ritenne di potere perseguire i membri esterni a Cosa nostra che contribuivano a rendere possibili i loro scopi illegali.

Dunque, sulla base di una norma formalmente inesistente, per 22 anni e 4 mesi viene semplicemente massacrata la vita personale, familiare, professionale del superpoliziotto della squadra mobile di Palermo e numero tre del servizio segreto civile (Sisde).

All’uomo delle indagini sul caso De Mauro, allo stretto collaboratore di Boris Giuliano, al membro dell’Alto commissariato alla mafia e della Criminalpol viene imputato un reato infamante, quello di avere aiutato (favorito) Cosa nostra. I suoi accusatori sono stati dei personaggi noti per il loro pentimento (e i cospicui vantaggi ad esso connesso), vale a dire Tommaso Buscetta, Rosario Spatola e Giuseppe Marchese. Erano tutti suoi avversari e nemici che cominciarono a colpirlo quando dall’Alto commissariato passarono alla Dia, con Gianni De Gennaro.



L’applicazione retroattiva di una norma significa che chiunque, a discrezione di magistrati degni (o meno) di questo nome, può essere punito per un fatto che nel momento in cui viene compiuto non costituisce reato.

Questa prassi è giunta ormai alla metastasi. Dal terreno penale è tracimata in quello amministrativo, in campo civile e istituzionale. Sta, dunque, demolendo ciò che resta dello Stato liberale. 

La Corte europea ha invitato il governo di Roma  a porre un argine a questa deriva reazionaria del nostro assetto istituzionale. Si comincia sempre in questo modo, violando il principio della certezza del diritto.

I cittadini vogliono sapere se è vero, se è provato, che Contrada fosse colluso con Riina (cioè ne proteggesse la latitanza), passasse informazioni al boss Rosario Riccobono e se fosse d’accordo, informandolo, con Stefano Bontate. Si deve condannare o assolvere sulla base del loro fondamento.

Sarebbe, questo appena accennato, un garantismo parziale, a senso unico, se non dicessimo che anche l’ex fondatore e parlamentare di Forza Italia, Marcello Dell’Utri (piaccia o non piaccia politicamente) è stato condannato per lo stesso reato, cioè per avere commesso azioni non configurabili penalmente come complicità con la mafia alla data in cui vennero contestate.

Dalla documentazione allegata alle sentenze della Cassazione emerge che Dell’Utri ha avuto continui rapporti con capi dell’onorata società. Ma nessun giudice ha potuto dimostrare, se ricordo bene, la tipicità degli illeciti compiuti, cioè la partecipazione alle attività delittuose di quelli che molto spesso erano suoi compagni di scuola e con i quali ha mantenuto — sicuramente troppo a lungo — rapporti di amicizia.

E’ un segno di barbarie lasciar marcire in carcere (si chiami Contrada o Dell’Utri) chi è imputato di essersi macchiato di reati prima che questi fossero stati sanciti come tali da un voto parlamentare.