CATANIA — La tragedia di ieri notte davanti alle coste libiche impone almeno due riflessioni. La prima è la pietà umana e cristiana che noi tutti dobbiamo avere per settecento persone che non avranno neppure una sepoltura come quella riservata ad ogni essere umano. 

La seconda riflessione è una domanda. Di chi è la responsabilità di quanto accaduto? Di quei poveri disgraziati che non sapevano nuotare e che alla vista della nave che li avrebbe salvati hanno commesso una grossolana e drammatica stupidaggine che li ha condotti alla morte? Dell’occidente, che con i suoi programmi di salvataggio in mare, i suoi telefoni satellitari, il suo dispiegamento di navi e uomini, non è riuscito ad evitare una nuova tragedia? O anche e soprattutto di quanti li hanno imbarcati su un peschereccio certamente inadeguato per raggiungere la costa, serenamente consapevoli di aver raggiunto il loro scopo, quello di intascare per ogni “passeggero” un cospicuo numero di dollari? Per loro l’operazione è compiuta. Ma per quanto tempo ancora dovremo continuare ad affrontare questo tema dalla coda perché non abbiamo il coraggio di prendere il toro per le corna?



“Anche la carità ha un limite!”. Questa è una delle espressioni più ricorrenti fra quanti ancora una volta, sulla banchina del porto di Palermo, accolgono da giorni la nuova e inarrestabile ondata immigratoria.

La macchina organizzativa funziona ormai perfettamente: Protezione civile, Caritas, volontari, tra cui anche immigrati oggi residenti da noi, si prodigano con tutti i mezzi disponibili, e non sono pochi, per offrire la prima assistenza.

Non è diminuita la generosità, l’abnegazione, l’attenzione al bisogno di quanti arrivano. Aumenta invece, e si fa sempre più pressante, una domanda: “Continuando così, cosa accadrà la prossima settimana”? “E il prossimo mese”? “Cosa ci riserverà l’estate imminente”? 

La descrizione, per quanto approssimativa, della situazione lasciata in Libia da quelli che toccano terra è drammatica: sia per le condizioni di vita in cui sono costretti a sopravvivere coloro che attendono di partire, sia per l’aumento di quelli che man mano sono raccolti nei campi in attesa di essere imbarcati.

Difficile dare numeri esatti (anche le nostre autorità evitano di farlo), ma a molti pare che parlare di 500mila persone che sono in attesa sia realistico. Molti di coloro che sono ad accoglierli si chiedono: “Ma per quanto tempo ancora”? E, soprattutto: “Per quale obiettivo”? “Offriamo accoglienza, ma con quali prospettive”? “L’Europa è grande, ma potrà accogliere così tanta gente”?

Su questa già grave situazione si è allungata in questi giorni la paura di quanto avvenuto su un barcone: l’uccisione di 12 immigrati di fede cristiana da parte di immigrati di fede islamica. La magistratura palermitana vuole vederci chiaro, ma la descrizione di quanti erano presenti non lascia molti margini di dubbio: di fronte al pericolo di naufragio, visto che l’imbarcazione imbarcava acqua, i cristiani presenti hanno invocato Gesù; invece gli islamici non si sono accontentati di invocare Allah, ma hanno preteso che così facessero anche i cristiani. 

Al rifiuto sono stati scaraventati in acqua. Qualcuno ha commentato che gli islamici erano in maggioranza! Come se in un paese della Sicilia accadesse un terremoto di vaste proporzioni e di fronte alla volontà dei cristiani di invocare il Santo protettore del luogo gli islamici presenti lo impedissero con la forza. Si tenga presente che in Sicilia esistono già comunità locali, piccoli paesi dell’interno, in cui gli italiani residenti sono numericamente inferiori rispetto agli stranieri provenienti da altre nazioni europee e extraeuropee.

Questo salto di qualità in un processo già così difficile ha portato il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, a dichiarare: “E’ un fatto davvero terribile quello che è accaduto in mare nel Canale di Sicilia. Certo, se quello che emerge dalle prime indagini e dai racconti dei superstiti dovesse essere accertato, tutto questo getterebbe una luce nuova, particolare sulla pericolosità di certi arrivi. Non fosse altro perché è la prima volta che questo accade”. Se un così autorevole magistrato si esprime in tal modo, c’è da ritenere che siamo di fronte a nuovi scenari, difficilmente gestibili, almeno con i metodi e i mezzi che abbiamo finora utilizzati. I criminali sono stati subito individuati e sottoposti alle misure previste dalla nostra autorità giudiziaria. Possiamo anche ritenere che saranno giudicati e condannati (sui tempi tralasciamo). Ma poi? E come se durante la seconda guerra mondiale gli Alleati, preso atto del genocidio degli ebrei nei campi di sterminio nazisti, avessero arrestato e condannato i macchinisti che guidavano i treni con destinazione Auschwitz, Buchenwald, o Dachau.

Lo scenario con cui fare i conti oggi riguarda la dimensione e la ramificazione di una struttura criminale internazionale che gestisce tutta l’operazione, dal reclutamento dei migranti nei paesi di origine fino all’arrivo prima in Libia e poi in Europa. I proventi economici non vengono dall’occidente, ma dalle tasche di tanta povera gente non europea, e quindi possono essere facilmente e immediatamente reinvestiti nella guerra, nell’acquisto di armi. Le solite armi che continua a produrre l’occidente, quello verso cui poi vengono realmente puntate.

L’obiettivo da raggiungere potrebbe essere quello di portare in Europa in breve tempo qualche milione di immigrati in gran parte islamici, al fine di far implodere un sistema che neanche i 4mila morti dell’11 settembre 2001 sono riusciti a far esplodere. 

Già, un’implosione del sistema. Ma perché? Ma perché un arrivo così massiccio provocherebbe imprevedibili conseguenze non solo sul versante economico. Non è in discussione la possibilità reale di dar da mangiare a tanta gente, ma quella di garantire una convivenza e un’integrazione fondate sui capisaldi della convivenza dell’occidente. Valori quali: tolleranza, diritti civili, libertà di pensiero e di espressione, parità tra uomo e donna, democrazia dovranno essere coniugati e praticati in un’Europa in cui i principi etici dell’islam saranno patrimonio di un sempre crescente numero di persone. Il confronto tra occidente e islam non avverrà, come finora è stato, su terreni e zone geografiche divise e contrapposte, ma all’interno dello stesso occidente, cioè del territorio europeo.

Quando l’occidente dovrà ammettere che non è in grado di gestire questo processo, allora sarà facile, a coloro che lo hanno con lucidità e cinismo gestito, poter dire: “Avete visto? Non siete in grado! I vostri valori, i vostri principi, il vostro sistema, la vostra democrazia non reggono. Lasciate a noi il campo, perché solo possiamo guidare il futuro”. 

A questo punto bisognerà prendere atto che ciò che non ha funzionato non è questo o quel programma di aiuti umanitari, ma la pretesa dell’occidente di semplificare un processo che è complesso come tale, separandone alcuni aspetti, e ignorandone altri. Per tentare di comprendere partiamo dalla carità. Può la carità essere separata dalla verità? Come ci ha insegnato anche Benedetto XVI con l’enciclica Caritas in veritate, i due termini non possono essere scissi. Ma forse è proprio la verità che fa più paura all’occidente. Esso coltiva la pretesa di affrontare la complessità, semplificandola con schemi tipici della cultura occidentale, primo tra tutti l’illusione di separare il bene dal male, i buoni dai cattivi. L’islam è invece una realtà complessa e molto diversa dalla nostra. A fronte di un Libro, il Corano, che non prevede interpretazioni, vi sono una pluralità di esperienze religiose e sociali, alcune delle quali sfociano in campo politico, disseminate in tutto il mondo, con cui noi facciamo fatica a confrontarci, anche perché molte sono autoreferenziali. E noi magari intanto continuiamo a distinguere un islam moderato con cui discutere, mentre un altro islam (o forse lo stesso islam, questo ancora non ci è chiaro) porta avanti una strategia diversa.

La redistribuzione dei beni del pianeta, la giustizia distributiva e sociale, la convivenza tra culture diverse che non si fronteggiano ma si integrano, la difesa dei diritti civili che tenga conto dei percorsi che nel corso dei secoli tutte le civiltà hanno dovuto compiere, sono solo alcuni dei temi da affrontare. Ma può l’occidente moderno ed evoluto, come giustamente pretende di essere, saper attendere che tutte queste culture giungano con i loro tempi alle stesse conquiste che esso ha oggi faticosamente e finalmente raggiunto?

Il tema dell’integrazione rimane e incombe come un traguardo e una minaccia. Pur con gli errori commessi, duemila anni di cristianesimo dimostrano che questa strada è percorribile e garantisce il massimo rispetto per tutti. Oggi però l’occidente non la ritiene più percorribile. E allora, che fare? Vi è un’altra strada da percorrere? L’islam — in parte — è ancora convinto che sono i cristiani i nemici da combattere per affermare le sue ragioni. Ma ciò non corrisponde più alla realtà, almeno a quella europea.

La drammatica verifica di tutto ciò è quanto sta accadendo in Libia. Tralasciando di tornare sulle responsabilità politiche che occidente e Usa hanno nell’aver provocato tale situazione, rimane una drammatica domanda: “Perché è così difficili pacificare uno sparuto numero di bande rivali distribuite su un territorio vastissimo”? Sorge il dubbio che la fine di questa guerra costringerebbe l’occidente a fare i conti non con la pacificazione del territorio, ma con l’interruzione di un complesso processo economico e sociale (la cui espressione concreta è la tratta degli immigrati) che in questo momento è una sorta di punta di diamante della lotta che l’islam più violento ha sferrato all’Europa.