Non è accaduto in un college negli Stati Uniti, ma all’istituto Joan Fuster di Barcellona: poco dopo le 9 di ieri un ragazzo tredicenne, rimproverato da una professoressa per essere entrato a scuola in ritardo, l’ha ferita e poi ha ucciso con una balestra di fabbricazione artigianale un professore che si stava adoperando a soccorrerla.
La violenza a scuola non è inusuale: senza risalire agli anni Settanta, quando era fomentata dalla lotta politica, più recentemente quanti episodi di bullismo la cronaca ha registrato tra ragazzi (e ragazze) anche molto giovani. Più velata è quella nei confronti dei professori: di solito rimane a livello verbale, espressa in modi piuttosto coloriti, scritte sui muri che, qualora siano troppo offensive, vengono rapidamente cancellate. Una classe può manifestare la propria aggressività nei confronti dell’insegnante attraverso l’indifferenza o la passività durante le lezioni, con azioni di disturbo piuttosto seccanti, ma comunque limitate e correggibili dall’intuito e dalla sensibilità del docente, che mette in conto la possibilità di tali reazioni.
In questo caso però si tratta di una violenza che ha provocato un morto e quattro feriti. Possiamo solo immaginare la scuola macchiata di sangue, i suoi alunni messi di fronte a qualcosa di più grande di loro, il colpevole trattenuto dalla polizia in un’aula adibita al suo fermo: è così giovane questo ragazzo da non essere neppure imputabile. Come mai era armato di un pugnale, così sembra, e di una balestra? Se l’era fatta lui, visto che non gli era possibile comprarla a causa della sua età? E che dire della sua intenzione, manifestata ai compagni qualche giorno prima, di uccidere tutti i professori e poi darsi la morte? I suoi amici non l’avevano preso sul serio, avevano pensato a uno scherzo. E invece non è stato uno scherzo. La cosa è avvenuta, anche se per fortuna in misura più ridotta.
Finora non si hanno notizie sulla famiglia di questo ragazzo, sull’ambiente da cui proviene, sulla sua resa a scuola, sui suoi interessi al di fuori dello studio. Occorre essere molto prudenti sul movente: solo la rabbia per essere stato rimproverato, solo la paura di una punizione? E perché arrivare a scuola armato? L’adolescenza non è un’età facile e i ragazzi in quegli anni sono spugne, che si imbevono di ciò che vedono, sentono, respirano con l’aria.
Può accadere che alcuni non riescano a riflettere su ciò in cui si trovano immersi e imbocchino la strada dell’imitazione di gesti e comportamenti di forza nell’intento di affermare la loro presenza. E per questo tutti i modi sono buoni. Ma questa volta, purtroppo, il giusto desiderio di esserci, ha indurito il cuore e l’ha reso sordo e cupo a parole che, si può immaginare, per quanto severe, non possono scatenare la voglia di ferire.
Il giusto desiderio di esserci ha armato le mani e le hanno condotte, queste sì a ferire, a uccidere. L’omicida è in ogni caso un povero ragazzo, a cui augurare che incontri, nel cammino di pena previsto anche per lui, persone che, volendogli bene, sappiano correggere la sua precoce violenza.