Invitato il 20 aprile alla trasmissione televisiva “Piazza Pulita”, Erri De Luca ha concluso il dibattito recitando una cosiddetta preghiera laica dedicata all’affondamento di barconi di migranti di questi giorni nel Mediterraneo. Si tratta di una simil-poesia con un ritornello, “Mare nostro che non sei nei cieli”, che scimmiotta chiaramente il Padre Nostro recitato per la prima volta da Gesù. 



La recita in tivù ha scatenato un vivace dibattito soprattutto su blog e siti giornalistici online, con prevedibile divisione tra commossi e sognanti sostenitori del Poeta e inviperiti oppositori che hanno tirato fuori l’accusa di sobillatore di sabotaggi e antico simpatizzante delle Br. Una reazione e uno scontro assai ben prevedibili, che pure l’autore avrà intelligentemente immaginato, forse pensando che, suvvia, la pubblicità fa sempre comodo. A certi livelli si sa benissimo che, purché di una cosa se ne parli, va sempre bene. Nella società dell’immagine e delle apparenze, a cui la letteratura di De Luca appartiene pienamente, l’unica vera stroncatura è l’indifferenza.



Ma a ben guardare a cosa serve questa, chiamiamola così, poesia? Cosa dice veramente? Dal punto di vista formale, è piuttosto banale: un livello medio di scrittura, quello che qualcuno definisce “poetichese”, qualche aggettivo prima del sostantivo (“gremite imbarcazioni”) per un’impolverata di liricità, alcune stucchevoli metafore da principianti, principalmente della specificazione (“età delle tempeste”, “con la pesca/dei naufraghi salvati”), facile facile da capire, stuzzicante quel che basta per un po’ di commozione, con l’eco di alcune reminiscenze, soprattutto bibliche, non troppo complesse perfino per un popolo come quello italiano che ormai di paternoster ne snocciola ben pochi.



Se l’avesse scritta un liceale di terza, più del sei e mezzo non potrebbe pretendere. Ma è una poesia perfetta per la televisione, medium poco adatto all’intelligenza profonda della realtà. È così che si scrive per il successo oggi: qualche ingrediente immediatamente intrigante (un po’ di emozione, un po’ di indignazione civile, un po’ di religione purché rigorosamente “laica”, cioè in accezione contraria al religioso autentico e profondo, un po’ di immagini seminate a mo’ di prezzemolo) e il gioco è fatto. Che non si faccia troppa fatica, mi raccomando: se l’Italia annovera nella sua tradizione recente Montale, Ungaretti, Caproni, Luzi, ermetismo, simbolismo, futurismo, neorealismo, che importa? Mica vendono come De Luca che, guarda un po’, viene da qualche anno ospitato come poeta nella collana bianca di Einaudi, che una volta indicava autorevolmente i valori più alti della poesia e invece oggi insegue tristemente gli pseudoautori televisivi più in voga.

Ma perché poi preghiera “laica”? Perché non si può dire una preghiera “preghiera”? Si capisce bene, ed è la stessa minestra: perché la preghiera a Dio è di una minoranza, mentre quella laica è potenzialmente di tutti, credenti e non. Una questione di audience, probabilmente. 

Certo, una formidabile promozione di sé. Sul reale sentimento di Erri De Luca rispetto alla tragedia dei migranti non disquisiamo: siamo di quelli che credono pregiudizialmente alla bontà del cuore umano. Sui risultati attesi da questa operazione non abbiamo dubbi: De Luca ha cercato di accreditarsi come voce rappresentativa di un dolore popolare, battendo tutti i colleghi scrittori e entrando sempre più nel sentimento del suo fan, lettore e soprattutto lettrice media. Altrettanto sulla qualità dell’opera letteraria in questione non abbiamo dubbi: aiutati da Oscar Wilde, il quale diceva che non esistono opere morali o immorali, ma solo quelle scritte bene o scritte male, possiamo concludere senza esitazione: questa “preghiera laica” è scritta male.