Ho ascoltato e poi riletto quel che ha detto Mauro Corona a la Zanzara, riguardo alla sua dirompente scelta dell’eutanasia. Un eufemismo, parlare di dolce morte con la violenza e la rabbia gridate per sfregio, non alla morte ma a una vita non amata. Si potrebbe pensare a una studiata mossa per attirar l’attenzione, in concomitanza con l’uscita di un libro. Eppure non lo credo, conoscendo un po’ i dati biografici di questo montanaro duro e petroso, scontroso e ferito, grande arrampicatore, e bravo scrittore di una natura che freme, sa suggerire e disvelare il mistero.
Bracconiere per i monti col padre, da piccino, abbandonato dalla mamma, vede il Vajont crollare col suo carico di morti e di insensatezza, vive poveramente, senza poter compiere gli studi, lettore solitario e vorace dei classici. Il fratello emigrato in Germania muore tragicamente. Le sculture intagliate nel legno, i racconti dei boschi incantati, le scalate in montagna sono una bellissima e fascinosa ricerca di bellezza, di significato.
Le voci dei cuculi, l’attaccamento alle radici di un mondo scomparso, i riconoscimenti alla sua arte e alla sua originalità paiono accompagnarlo, almeno in apparenza “fuori dall’inferno”, come lui dice. Purtroppo, quando hai successo la gente non guarda mai e non capisce la tua anima, non gliene importa: e a un’anima assetata non basta un premio, una conferenza, un passaggio in tv, neppure che il suo personaggio venga disegnato a fumetti e le sue storie tradotte in cinese. Sarebbe sbagliato, dopo la sua uscita alla radio impertinente e feroce (la radio, non la sua intervista) fermarsi all’insulto, la bestemmia, lo sberleffo. Spiazzano le parole con cui dice di aver già scelto i suoi killer, tre persone care cui ha consegnato una pasticchetta mortale. In caso di malattia grave, invalidante, che non permetta un’uscita dignitosa e libera da questo mondo.
Bisognerebbe chiedersi che si intende per dignità e libertà. Se è la furiosa e ansimante ricerca di aria, di altezza, di diversità, se è fare quel che si vuole, credendo di essere finalmente felici; ed è dignità poter rispondere a questo progetto, dimostrare qualcosa, essere all’altezza. Non parla di cliniche svizzere per ricchi depressi, Corona, ma di foibe, in cui infrattarsi con sigari e vino per lasciarsi morire così, di fame e di isolamento.
E’ una sfida, e vale come provocazione a tutte le domande che inghiottiamo, a tutte le sciocchezze su cui crediamo di basare la riuscita e il senso dei nostri giorni. Perché in effetti, cosa ci impedisce una visione diversa, che il putrefarsi della carne nella terra, di ossa livide alla pioggia e al sole, memento di nullità e follia di esistere? Non è il tormento terribile di spiriti eletti, da Foscolo a Baudelaire a Montale a Pavese, il piegarsi alla mancata scoperta di un varco? Non è il nostro tormento, se guardiamo realisticamente a chi siamo, alla nostra impotenza di fronte al dolore, al male?
C’è qualcos’altro, però, che nasconde a balenii un disperato grido, il bisogno di bene. “Sono una merda, non mi piaccio. Mi faccio schifo, anche fisicamente. Sono un cattivo essere umano, un vile…”. Cosa spinge un uomo, intelligente, ardimentoso, a umiliarsi così? L’ostinata volontà di essere diverso, di scandalizzare, può darsi. Oppure una dolorosa, insanabile, straziante infelicità. Il non volersi bene è il segno più grande del voler essere amati. Il non amarsi è il sigillo alla solitudine, e porta con sé cinismo e lamentosità, furore e malinconia, apatia. Cosa voleva “poter fare di più”, uno come Corona, così invidiabile, per le sue molte passioni, così riuscito, come scultore montanaro scrittore? Tutti noi vorremmo avere di più, riuscire di più, essere altro, fermare il tempo, strapparci di dosso la malattia o la sofferenza. Ci scandalizza la nostra miseria. Perché non dev’essere senso di inferiorità, ma coscienza di una umanissima e liberante mendicanza.
Bisogna chiedere, per trovare. Bisogna chiedere aiuto, per essere aiutati. Pregare, per trovare Dio. Corona vuole una croce di legno sui suoi poveri resti. Una mezza frase buttata così, che nessuno ha guardato. Vorrei chiedergli se solo come simbolo di una tradizione. Mi direbbe di sì, e io non gli crederei. Una croce di legno significa riposa in pace, ed è la pace che cerca, non della morte, ma della vita. Anch’io. Perché la Resurrezione e il centuplo li vogliamo qui ed ora. Se si potesse svelarlo nella sua nudità, un uomo così, abbracciarlo, con tenerezza, convincerlo che il suo valore è immenso, come di ciascuno e di tutti, dell’ultimo su questa terra e del più grande. Fargli vedere i suoi boschi e le sue montagne come una possibilità, una strada, e vederlo abbandonarsi e lasciarsi portare per mano. Se poi perdi te stesso, a che vale il tutto. Vale perché Tu te ne curi, Signore del bosco e di quella croce di legno.