In un normale giorno di festa per i 70 anni della nostra liberazione dalla dittatura nazi-fascista, a pochi giorni dall’ecatombe del mare di Sicilia, un altro dramma viene a bussare alla nostra porta attraverso i 1500 morti del terremoto in Nepal, terremoto che ha raso al suolo ogni bene, ogni speranza, ogni futuro per l’intera regione. E che per noi, che avevamo già dato le ultime lacrime per gli 800 morti del Mediterraneo, diventa l’ennesima provocazione emotiva a soffrire con gli altri e “per” gli altri. 



Ma il cuore a questo punto comincia a non averne più voglia: sono, questi del Nepal, morti lontani, argomenti al di fuori della nostra portata, eventi in cui è difficile trovare colpevoli o responsabili e che — pertanto — esauriscono in fretta il nostro interesse per tornare a concentrarci sulla nostra vita, sul nostro tornaconto, sulla nostra realizzazione personale. Tutt’al più emergono preoccupazioni culturali per il patrimonio artistico perduto o sostegno umanitario per le azioni da intraprendere in favore delle popolazioni colpite. Ciò che scompare, di contro, è invece la nostra compassione, la consapevolezza di essere tutti “connessi” e mai estranei gli uni agli altri, la percezione che la vita dell’altro — di ogni altro — resti sempre significativa e imprescindibile per il desiderio del nostro cuore. 



Ma perché avviene tutta questa aridità? Perché accade tutta questa voglia di “cambiare canale” o di “voltare pagina”? Perché, ad un certo punto, il nostro cuore non ce la fa più? La risposta è in verità molto semplice e, forse, disarmante: noi tendiamo a considerare i fatti della vita per il significato che possono avere, per quello che possono darci in termini di conferma o sconfessione ideologica di noi stessi e non per quello che banalmente sono, ossia semplicemente “fatti”. 

C’è una prospettiva ideologica nel guardare la realtà, quindi, che rischia di eliminare l’aspetto estetico, di contatto e di incontro con il reale. Questa prospettiva ci porta a chiederci il “perché” delle cose, a catalogarle, a trovare loro un senso prima ancora di accostarle ed accogliere. Essa, in poche parole, ci allontana dal presente e non ci permette, davanti ad ogni dramma, di porci la domanda decisiva, quella che Qualcuno venga e cambi le cose, quella di una Presenza capace di compiere il miracolo. 



Imbrigliati nei nostri mille perché e nelle nostre mille spiegazioni, perdiamo di vista il bisogno più grande che abbiamo, che non è quello di capire, di risolvere, di sistemare le cose, ma quello per cui un Altro ci possa davvero guardare e salvare. È della Salvezza, della Riconciliazione, che ha bisogno la nostra vita, non di un tornaconto logico di ogni morte e di ogni sofferenza. La domanda più interessante non è quella sul perché moriamo o soffriamo, la domanda più vera riguarda il perché noi nasciamo e desideriamo, il perché il nostro cuore esploda di nostalgia nell’attesa di Qualcuno che venga e che ci faccia totalmente e definitivamente Suoi. 

Naufraghi nelle nostre false domande, eludiamo la questione più vera e che, con grande essenzialità, si potrebbe così definire: “perché sono nato?”, “qual è il compito della mia vita?”. Noi misuriamo spesso l’esistenza in tempo o in “performance”, ma la vita si giudica sull’amore, su quell’appassionata forza che ci spinge verso l’Incontro della vita, quello con un Altro che ci ama e che ci aspetta. La vita non è fatta per non finire, per non soffrire, per essere lunga, ma per incontrare Lui. Essa ci è stata prestata e donata per questo e, in forza di questo, ciascuno dovrà restituirla non parlando dei reumatismi patiti, ma dei sì a Cristo che ha saputo o non ha saputo dire. 

Il Nepal, lo si vede bene, non è poi così lontano: esso riapre in noi tutto il dramma di un’incapacità di soffrire “con” l’altro che svela la vera bugia della nostra vita: quella che ci illude di essere eterni e di non dover mai più restituire il nostro stesso povero respiro. Tutto ci è consegnato per un breve tempo. E il giorno in cui si decide tutto è quello in cui siamo chiamati a rendere tutto — pezzo dopo pezzo — a Colui dal quale abbiamo ricevuto ogni istante, ogni più piccolo “sì”.