La notizia, di questi tempi, non è neanche di quelle che sconvolgono l’opinione pubblica più di tanto: un medico genovese di 65 anni si suicida perché il figlio farmacista è stato arrestato da una “magistratura miope che a volte uccide”. Lo scenario non solletica nessuna morbosa curiosità, e l’accusa alla giustizia, scritta su un biglietto lasciato sull’auto prima di buttarsi dal Ponte Monumentale, in pieno centro, per quel che se ne sa, appare un po’ gratuita. 



Un’inchiesta condotta dalla Procura di Monza su un traffico internazionale illecito di medicinali, iniziata nel 2011 e denominata Pharma Connection, conduce il 2 aprile di quest’anno all’arresto di 19 persone, 6 spedite in carcere e 13 ai domiciliari, oltre al sequestro di beni per complessivi 23 milioni. Fra queste persone, ai domiciliari, il trentaseienne farmacista Marco Meinetto Bellario e la moglie Valentina Drago. Il giro in cui i due sarebbero coinvolti, secondo l’accusa, è grosso, comprende furti di costosissimi farmaci rivenduti all’estero dove sono commerciabili a differenza che in Italia, riguarda un certo numero di Paesi europei dell’ovest e dell’est e presenta un fatturato di molti milioni di euro. Non è noto al momento il grado di coinvolgimento nell’attività criminosa della giovane coppia di farmacisti. Si può supporre non di primissimo piano, stando alle ipotesi accusatorie, dal momento che si trova ai domiciliari e non dietro le sbarre: esclusa la possibilità di reiterare il reato, così come il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove e, verosimilmente, esclusi fondi all’estero. 



Il padre del farmacista è un pediatra noto in città. Domenica sera, con la moglie, è a cena dal figlio. Dunque non sembrerebbero domiciliari severissimi, altrimenti le visite non sarebbero ammesse.  Cena, un po’ di relax davanti alla tv, poi il rientro, e la tragedia. Che avrebbe potuto comportare la vita anche della moglie, se non fosse che un’esitazione a seguire il marito buttandosi dal ponte ha permesso ai carabinieri di salvarla.

Chi scrive è non da oggi, ma dal ’92, convintissimo che in Italia la magistratura è il potere che determina gli altri poteri. Un lucido articolo di Giuseppe De Rita sul Corriere del 25 aprile descrive bene il “tripolarismo” italiano, costituito da partito anticorruzione, megafono mediatico e cacicchi del consenso locale. La giustizia può essere giusta o ingiusta. Lo sanno addirittura anche gli adepti e araldi del partito anticorruzione, e padroni dei loro giornali, come Carlo De Benedetti, che quando fu arrestato (per poche ore, s’intende) e portato in Procura (concordando l’ora, circa le tre di notte, senza telecamere tra i piedi, s’intende), ebbe l’editoriale su Repubblica titolato “Giustizia ingiusta”. 



Sul giustizialismo di comodo potremmo ironizzare e denunciare in lungo e in largo, ne avremmo ben donde. Qui basti richiamare il succo che ci interessa: qui, in questo mondo e in questo contesto, senza un oltre, non ci sarà vera giustizia. Ma questo non è un monito solo a chi “gestisce” la giustizia, ma anche a chi la “subisce”. Vale a dire: io esisto, ho dignità, la mia vita vale la pena non perché qualcuno (il giudice, il potere) dice che sono ineccepibile, ma perché la Misericordia ha avuto pietà del mio niente.

Scusate l’omelia. Che omelia non è, ma davvero che altro si può dire? Certo, si possono fare tante ipotesi sui motivi del suicidio, tanto immaginare non costa nulla, ma non serve neanche a nulla. Quando la vita conosce la “non riuscita” ci appare ingiusta. Ecco. Occorre un senso della vita che non sia la sua riuscita benedetta dal potere, ma una presenza misericordiosa. Ripeto, scusate l’omelia.