Ho letto un pezzo sul Fatto Quotidiano, l’altro giorno, un giudizio sul pontificato di Giovanni Paolo II, a dieci anni dalla sua scomparsa. Un giudizio pesante. Quanto tempo è passato dall’ultimo Imperatore, sembra un secolo. Quanti dossier incresciosi, per fortuna si è virato altrove. Leggo i quotidiani oggi, uno dopo l’altro. A parte un ricordo commosso di Marina Corradi su Avvenire, nient’altro, qualche boxino di ricorrenza. Ascolto la doverosa memoria in televisione. Attore, sportivo, inventore delle Gmg, picconatore del comunismo, un vecchio sofferente che abbraccia la croce e nient’altro.
Mi pare incredibile la studiata, sciatta dimenticanza, l’archiviazione nel passato di un uomo, e di un Papa, che tanto hanno segnato il tempo del mondo e della Chiesa. E’ solo trascuratezza, o c’è una volontà precisa, l’idea di interpretare in questo modo la nuova via della fede, di rincorrere presunte rivoluzioni? Sospetto la presunzione, la compiaciuta supponenza di chi non lo amava, e crede finalmente di poterlo dire apertis verbis, sottintendendo le proprie illuminate ragioni. Si sapeva, insomma, che era un conservatore, un tradizionalista, ossessionato dalla politica, e per combattere una sola ideologia, si era vista la sua intransigenza verso la teologia della liberazione, certe radicalizzazioni post conciliari. Troppo autoritario, troppo poco dialogante, e colpevolmente distratto su alcune questioni spinose, anzi spinosissime, dolorose, anzi dolorosissime, padre Maciel su tutte. La chiesa del silenzio rialza la testa, finalmente, dopo la parentesi di Benedetto, che era il braccio armato di Wojtyla, papa Francesco li ha scavalcati entrambi, relegandoli in un tempo lontano (la chiesa del silenzio è la chiesa perseguitata, allora come oggi, non quella che ha sempre avuto totale copertura mediatica).
Bisognerà pur dire che questa lettura oltreché ingenerosa e gretta, è anche del tutto sbagliata. Mai, mai papa Francesco ha parlato del suo predecessore assurto agli altari se non con devozione, ammirazione, filiale rispetto, e i mormorii di curia o di certa stampa sono pettegolezzi velenosi. E’ banale dire che senza Giovanni Paolo non ci sarebbe stato Francesco: la stessa prorompente e vitale umanità, la forza comunicativa, nella parola e nel sorriso, nei silenzi e nel grido, la tenerezza, con cui abbracciare un bambino o accarezzare una piaga, l’autorevolezza, la severità davanti ai segni del male. La spontaneità, l’attaccamento alle radici, la tenuta nella preghiera, e potremmo andare avanti. Anche a sottolineare le differenze, perché differenti la formazione, l’ambiente, la forma dell’incontro cristiano, i tempi del ministero.
Ma la contrapposizione, l’opposizione, mai. Non hanno senso nella storia della Chiesa, checché ne pensi chi parla e vede al di fuori della Chiesa, che ha una sola strada, dove si cammina, sempre avanti, sempre insieme, dove c’è solo evoluzione, mai interruzione. Basta leggere i testi del magistero, non accontentarsi di ciò che attira l’attenzione di teologi e vaticanisti, dai seminatori di zizzania che dentro la Chiesa stessa abbondano. Può cambiare lo stile, non la dottrina. E poi, papa Francesco avesse avuto dei dubbi sul suo predecessore, semplicemente non avrebbe permesso la canonizzazione: è un uomo di governo, un uomo che sa parlar chiaro.
Gli interpreti e i divulgatori della storia della Chiesa rammentino anche quel sentimento popolare che brandiscono oggi per esaltare giustamente il carisma di papa Francesco. E’ lo stesso sentimento che ha animato per 27 anni il pontificato di Giovanni Paolo II. Che ha fatto gridare santo subito, magari con ingenuità, magari con emotività. Ma è il metodo che la Chiesa ha scelto per i suoi santi, nei secoli. Lo stesso sentimento che ha fatto sussultare il cuore a chi era ragazzo, in quei giorni cupi del ’78, alle parole “Aprite, spalancate le porte a Cristo, non abbiate paura”.
Le generazioni Wojtyła sono tante. Sono uomini, donne, religiosi, missionari, laici, cristiani diventati tali con lui, grazie a lui. Non si archiviano con qualche riga di giornale.