Il nome di Gigliola Mancinelli, morta durante il terremoto in Nepal, è passato molte volte sui giornali in questi tragici giorni. Cinquantenne, anestesista e rianimatrice presso l’ospedale di Ancona, membro di spicco del Soccorso Alpino, Gigliola Mancinelli coltivava, fin da giovanissima, la passione per la speleologia. 



Mentre le cifre del disastro si aggiornano di continuo, uno spiraglio di luce fugge dalla vicenda di questa donna. 

Nel prologo del celebre racconto Le nevi del Kilimangiaro di Ernest Hemingway si fa cenno alla carcassa di un leopardo trovata presso la vetta della montagna. “Nessuno ha saputo spiegare” commenta lo scrittore “cosa cercasse il leopardo a quell’altitudine”. Quello che è chiaro è che non si parla davvero di un leopardo, ma dell’uomo, di tutti noi.



Siamo noi, infatti, quelli che salgono in vetta al Kilimangiaro, o si calano nelle grotte sotterranee, e siamo ancora noi quelli che affrontano settanta gradi sotto zero, scendono a undicimila metri di profondità a bordo di una batisfera, scrivono romanzi di duemila pagine e fanno tutta una serie di azioni che non trovano spiegazione né nel mercato, né nel guadagno, e nemmeno nel vantaggio mediatico.

Se essere intelligenti significa, oggi, curarsi della propria immagine, venderla, migliorarla e così via, queste persone possono essere definite stupide. Sono gli scemi del villaggio, quelli che non conoscono il proprio interesse e finiscono per andarci contro. Ma sono anche quelli che riescono ancora a regalare al mondo grandi imprese, grandi racconti.



Gigliola Mancinelli era così. Non le bastava essere moglie, madre, medico valentissimo? I notiziari ci danno conti di tanti corpi morti, cadaveri bruciati, dispersi. Ma non sono soltanto corpi, sono anche anime, voci che gridano, cuori che battono di passione per la vita, per questa cosa che non basta mai, per questa misura che non sarà mai colma — perché la misura del cuore è questa.

E allora eccola, l’anima, che è sempre intenta a cercare, che non è mai sazia, e che mai dirà “tutto a posto”. Il viaggio più bello è sempre quello che non abbiamo ancora fatto, il libro più bello quello che non abbiamo ancora letto. E allora giù, nelle grotte, o a calpestare ghiaie e forre dove forse, chissà, nessun piede umano si è mai posato. 

Così è fatto l’uomo. Nel racconto di queste tragedie è difficile che i cronisti si soffermino su questi che sembrano dettagli troppo piccoli quando la brutalità del male sembra in diritto di cancellare il fiore del bene e del bello. 

Ma nella mia memoria Gigliola Mancinelli rimarrà, finché avrò vita, saldamente unita alla sua passione, al suo bisogno di infinito che si esprimeva così — forse, chissà, era quello il suo modo di pregare, o di sentirsi pienamente umana (che poi è lo stesso che pregare). 

Certo, la sua morte è solo un pezzettino di una grande catastrofe. Ma le mie parole su questa donna non vogliono oscurare le migliaia di poveretti che hanno perso la vita, o qualche persona cara, o l’intera famiglia nel terremoto. 

Vogliono anzi illuminare meglio questo dramma, contribuire a ricordare che quei morti e quei senzatetto, che ora soffrono la fame e il freddo, sono uomini come noi, ossia uomini che portano nel cuore il nostro stesso grido, la nostra stessa domanda, il nostro stesso bisogno di bontà, di tenerezza e di pietà.

Non si tratta di provare sensi di colpa, ma solo di ricordare che nessun uomo che muore, fosse pure al lato opposto della Terra, si può dire estraneo a noi.