La lettura della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per violazione del divieto di tortura in occasione dell’irruzione alla scuola Diaz durante il vertice del G8 del 2001, lascia un grande senso di sgomento. Non solo per la ricostruzione dei fatti, ormai noti, di quella notte e dei giorni che la seguirono. Lo sgomento emerge piuttosto dall’insieme delle condotte tenute dagli organi dello Stato italiano prima, durante e dopo quell’episodio.



Conviene sottolineare come, da un punto di vista tecnico, la sentenza della Corte europea riguarda non già comportamenti di singoli organi statali, quanto piuttosto dello Stato nel suo complesso. Non mancano, nella sentenza, riferimenti al ruolo positivo svolto dalle autorità giudiziarie, soprattutto in grado di appello e di cassazione. Ma il comportamento dei giudici, che hanno accertato e punito con gli strumenti a loro disposizione, alcuni dei colpevoli, non è stato sufficiente a sollevare lo Stato italiano dalle sue responsabilità.



Al fine di rendere effettivo il divieto di tortura, una società democratica ha il dovere di reagire con strumenti procedurali di inchiesta che accertino rapidamente i fatti, non lascino zone d’impunità, non consentano complicità o coperture. In assenza di tali meccanismi, soggiunge la Corte, il divieto di tortura finisce per perdere efficacia e consentire persino che coloro che detengono legalmente la forza, ne abusino per fini contrari al diritto.

Or bene, come emerge nitidamente dalla sentenza, questo cordone sanitario, che deve isolare i torturatori e i loro complici, non si è mai veramente avvolto intorno ai colpevoli dei fatti della scuola Diaz. 



Indica la Corte come la tortura sia un crimine contro l’umanità al quale corrisponde un diritto inderogabile, anche in tempi di guerra e di terrorismo. Questo carattere inderogabile dovrebbe escludere che nei confronti di atti di tortura, ovvero di altre condotte ad essa correlate, possa operare la prescrizione, siano ammissibili atti di grazie o amnistia. Ora, la sentenza ha notato come una serie di reati commessi in quell’occasione siano caduti in prescrizione, altri sono stati alleviati attraverso l’indulto. 

Il carattere fondamentale del divieto di tortura esige che tutti gli organi di uno Stato democratico debbano prestare la propria cooperazione al fine di individuare e punire i responsabili. La sentenza osserva come, in seguito alla mancata cooperazione delle autorità di polizia, molti dei responsabili non siano mai stati identificati e, di conseguenza, non siano mai stati sottoposti a procedimento penale.  

Il carattere abietto del reato esigerebbe che i responsabili siano colpiti da sanzioni amministrative, vengano rimossi dalle cariche pubbliche, subiscano pregiudizio nella carriera al servizio dello Stato. La Corte ha notato come, significativamente, la propria richiesta di informazioni sulle sanzioni amministrative inflitte ai colpevoli sia rimasta senza risposta da parte dello Stato italiano.

Da tali accertamenti, imputabili non già ad uno o ad altro organo specifico, ma, si ripete, allo Stato nel suo complesso, trae origine la sentenza di condanna nei confronti dell’Italia. Uno Stato democratico non può dare una garanzia assoluta che un atto di tortura non venga mai commesso dai propri organi. Esso, però, deve garantire che nei confronti di atti di tortura non vi siano zone d’ombra. È questa garanzia che non è stata data dallo Stato italiano, il quale, anzi, ha evidenziato, alla verifica della Corte europea, una strutturale inidoneità ad assicurare la prevenzione e la repressione di atti di tortura.

L’accertamento di una strutturale deficienza dell’apparato statale ad autoimmunizzarsi, e a rimuovere le “mele marce” che vi si possono annidare, ha quindi condotto la Corte europea ad adottare una misura generale. Questa formula indica l’invito che la Corte rivolge talvolta a uno Stato allorché la violazione dei diritti dell’uomo non sia occasionale ma, piuttosto, evidenzi una strutturale incapacità di garantire uno o più diritti fondamentali. Nella parte più nota della sentenza, che non sarà certamente motivo di vanto per l’Italia, la Corte ha quindi invitato lo Stato italiano a rimuovere questo “focolaio” di infezione, e a dotarsi di strumenti e meccanismi atti a prevenire e reprimere in maniera efficace la tortura. Fra questi, la Corte ha invitato l’Italia ad adottare di una legislazione penale, obbligatoria anche secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura, del 1984, che colpisca specificamente gli atti di tortura e gli altri reati ad essa collegati. 

Con ciò, la Corte non ha certo inteso dire che l’Italia pratichi diffusamente la tortura. La sentenza della Corte non consente in alcuna sua parte di trarre questa conclusione. La sentenza piuttosto pone in luce un altro aspetto, meno drammatico forse, ma egualmente inquietante: la strutturale incapacità dello Stato italiano di reagire, con l’intero suo apparato e non solo con alcuni suoi giudici coraggiosi, nei confronti di atti di tortura. Quel che si richiede è che ogni articolazione dello Stato non vi sia spazio per omertà, complicità, connivenze. Questo è, forse, il lascito di una sentenza che ferisce ma che, al tempo stesso, colpisce nel segno.