Le parole pronunciate ieri dal presidente cubano Raul Castro in visita eccezionale a Roma non possono certamente passare inosservate. Il fratello di Fidel, infatti, nella conferenza stampa congiunta con il premier italiano Renzi non solo ha definito il bel paese “partner strategico” nei negoziati tra Cuba e Ue in vista di un progressivo riavvicinamento fra le due entità politiche, ma ha anche avuto parole di ringraziamento esplicite per tutto quello che Papa Francesco ha fatto per la riapertura del dialogo con gli Usa resa nota nel dicembre scorso, fino ad affermare, dopo un colloquio privato di quasi un’ora col Pontefice, di essere pronto a rientrare nella Chiesa cattolica “se il Papa continua così”, impegnandosi a partecipare a tutte le Messe che Bergoglio celebrerà a Cuba nel settembre prossimo in occasione della visita ufficiale al paese latino-americano; e rivelando, a sorpresa, di leggere abitualmente tutti i testi e i discorsi di Francesco. 



Qui non siamo di fronte semplicemente ad un fatto storico, ma ad una chiara lezione di dottrina sociale della Chiesa che è possibile riassumere in almeno tre punti.

1. Bergoglio è sovente accusato da alcune “frange cristiane nostalgiche” di spostare l’impegno pubblico dei cattolici su una linea che ricorda molto la “scelta religiosa” compiuta dall’Azione Cattolica negli anni sessanta. Le frasi di Castro ci mostrano che il Papa sta tracciando invece una terza via tra quella identitaria e quella spiritualista che hanno animato un forte dibattito culturale in Italia alla fine del secolo scorso: egli sta superando il novecento attraverso una “proposta vocazionale”, mostrando la realtà — tutta la realtà — come una parabola, come un grande invito di Dio non a reagire emotivamente, ma a rispondere con franchezza. 



Francesco, in effetti, non si preoccupa tanto di reagire agli attacchi delle lobbies, che puntualmente denuncia e mette a nudo, quanto di rispondere a Cristo attraverso le circostanze che quotidianamente interpellano i cristiani e li spingono a pronunciarsi. La sua preoccupazione, però, non è la polemica contro la polemica, ma il dialogo con Cristo anche attraverso le polemiche. Questo metodo non stacca la fede dalle opere, non mette la politica “dopo” i principi (o in applicazione ad essi), bensì rispetta il grande dogma dell’incarnazione per cui solo attraverso l’umano è possibile dialogare davvero con il divino.



2. Un tale sguardo non si può proporre all’interno di una “campagna mediatica o culturale”, ma deve necessariamente porsi dentro una logica relazionale: è dentro il rapporto con Francesco che Raul Castro ha detto certe cose, non a partire da una strategia. Questo forse è quello che preoccupa di più certi ambienti che vogliono far coincidere la presenza cristiana con un’egemonia o con l’affermazione di un potere: il fatto che niente dipenda da un disegno dell’uomo, ma che tutto — in definitiva — sia sempre l’esito di una sequela, di un ultima obbedienza ad un Altro che c’è e che agisce nella storia e nel tempo. 

Dà fastidio, dà molto fastidio, ad alcuni cattolici non essere un gruppo di pressione ideologicamente armato con un chiaro piano d’azione per la riconquista dell’Occidente, dà fastidio giocare tutto sulla libertà della persona e sul rapporto vivo con l’altro e preoccupa non poco che non ci siano linee guida se non quelle che provengono dalla Tradizione, dalla Scrittura e dal Magistero. Quante volte, un po’ fideisticamente, si vanno a riprendere storie o documenti del passato con la pretesa che essi possano essere letti e compresi fuori dal contesto in cui sono stati formulati, dimenticando — in modo colpevole — che solo il dogma ha la pretesa di essere definitivo e che una teologia, per quanto illustre e ammirabile, è sempre una lettura della fede dentro certe coordinate di spazio e di tempo. Oggi la Chiesa ci chiede di giocarci tutto dentro un rapporto, dentro una dinamica relazionale chiara e autentica in cui nessun uomo ci è più estraneo, ma tutti gli uomini sono l’occasione vera per un incontro, per una storia.

3. Infine, è evidente — allora — che la pace per Papa Francesco non è il fine dell’azione sociale, ma la condizione in cui l’azione politica e sociale si collocano e portano frutto. Solo dentro orizzonti di pace si possono costruire relazioni nuove, libere dal pregiudizio e aperte all’imprevedibile. La continua alimentazione del conflitto irrigidisce le posizioni e allontana i cuori: i gesti profetici del Papa tendono così ad abbattere barriere o convinzioni ataviche di modo da permettere un Incontro, che tutto parta e ricominci da un Incontro. E questo è quello di cui c’è bisogno nella scuola, nel lavoro, in campo educativo, tra marito e moglie: gesti di pace, di distensione, che permettano ai rapporti di riaprirsi e di ricominciare. 

Continuare con gli automatismi del passato ci rende certamente più sicuri, ma ci chiude alle novità dello Spirito, condannandoci a rifiutare tutto ciò che sorge nella realtà, da un amore ad un carisma, come un pericolo, una pestilenza da evitare. Se Francesco avesse guardato a Raul come ad un “comunista” oggi non avremmo scritto queste cose, ma solo l’ennesimo encomio ad una cortina di ferro che — ogni giorno — la realtà abbatte e supera. Una realtà che ha un nome tanto insopportabile quanto inevitabile: Gesù Cristo. È Lui il nostro programma, la nostra strategia. E chi ha negli occhi tutt’altro si ritrova, paradossalmente, sempre più arrabbiato e triste. Disperato per un tempo che, al contrario di quanti pensano i “gufi” di casa nostra, è un’opportunità meravigliosa.

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