“In termini programmatici un risultato è certamente stato raggiunto e c’è una condivisione del problema da parte degli altri Paesi Ue. Se riusciremo anche ad affinare le regole e la procedura, avremo quantomeno di fronte un qualche miglioramento rispetto a prima”. Lo afferma Gian Carlo Blangiardo, docente di Demografia all’Università di Milano-Bicocca, dopo l’accordo sulle quote di immigrati raggiunto dalla Commissione Ue. A Bruxelles si è stabilito di creare un meccanismo automatico di ripartizione fra Paesi delle percentuali di rifugiati e migranti per motivi economici.



Professore, è un successo per l’Italia o è l’ennesimo contentino di Bruxelles?

E’ un dato di fatto che l‘Ue prende in considerazione seriamente il problema e quantomeno cerca di affrontarlo. Rispetto alla logica dell’”arrangiatevi voi”, questo farsi carico del problema è tutto sommato da valutare positivamente. Da un punto di vista tecnico, bisognerà però capire chi sia più in grado di contribuire a un tentativo di soluzione del problema e chi meno.



In che senso?

Nello stabilire le quote si sono cercati di rispettare i criteri di maggiore importanza dei diversi Paesi. La Germania ha una forte presenza di soggetti che hanno richiesto asilo politico, e il fenomeno migratorio che nei Paesi del nord era già presente in passato, mentre negli ultimi anni è cresciuto in modo fortissimo anche in Italia. Si è cercato comunque di tener conto del fatto che erano Paesi che hanno avuto e devono avere un ruolo importante nel continuare ad accettare questo tipo di presenza.

Qual è la vera natura dell’emergenza che ci troviamo a fronteggiare?

Il nostro governo ha diffuso dati significativi sugli sbarchi di gennaio e febbraio 2015 specificati per nazionalità. A colpire è il fatto che per esempio la percentuale di siriani, che nel 2013-2014 era abbastanza elevata, all’inizio del 2015 ha perso importanza. Lo stesso vale anche per altri Paesi in guerra. Due terzi di coloro che sono sbarcati nei primi due mesi di quest’anno provengono da Paesi africani come Nigeria ed Eritrea che certamente hanno una serie di problemi, ma che non presentano complessivamente situazioni di vera e propria guerra civile. Stiamo spostandoci progressivamente verso un’immigrazione spinta da motivazioni economiche, e sempre meno verso la fuga da Paesi in guerra.



Per il ministro britannico degli Interni, Theresa May, l’approccio europeo “non può che favorire la traversata del Mediterraneo e incoraggiare ancora più persone a mettere la loro vita in pericolo”…

L’attenzione al contenimento di questi fenomeni deve essere comunque alta. Non giustifico la posizione britannica, in base a cui gli immigrati dovrebbero essere respinti per non incentivare i flussi. Quello di Londra è un discorso per certi versi decisamente cinico, ma per altri versi ha un suo fondo di verità.

 

Perché?

La popolazione dell’Africa sub-sahariana è destinata a crescere in misura enorme nella componente giovane e in età da lavoro. Siccome in quei Paesi migliorare la propria condizione economica è quasi impossibile, in un mondo estremamente collegato e globalizzato come quello di oggi migrare sembra la soluzione più ovvia. Siamo veramente di fronte al rischio di una continua pressione migratoria.

 

Per il Guardian, ci sarà anche l’opzione di forze di terra in Libia per distruggere i barconi degli scafisti. Lei che cosa ne pensa?

E’ la stessa soluzione adottata tempo fa per l’Albania. L’idea di ripeterla in un contesto diverso, e soprattutto senza la cooperazione delle autorità libiche, è più rischioso. L’obiettivo sarebbe comunque quello di ottenere un effetto sorpresa, affondando i barconi finché sono in bella vista. Il vero punto delicato è però che un’operazione di questo tipo, che di fatto è un’operazione di guerra, va attuata a partire da un accordo globale anche con la Russia e con i principali Stati arabi.

 

In quali altri modi si possono contrastare i flussi?

I proverbiali grandi numeri dell’immigrazione di tipo economico sono un dato di fatto. Qualunque cosa serva a disincentivare questa tendenza può valere la pena di essere fatta. In particolare bisognerebbe mettere in atto una qualche azione negli stessi Paesi africani di origine dei flussi, per rendere queste persone consapevoli dei rischi di sopravvivenza che corrono quando compiono questo tentativo. Ma soprattutto occorre spiegare loro che in molti casi si tratta di rischiare la vita e quei quattro soldi che uno ha risparmiato, investendo tutto in un progetto che ha un’alta probabilità di non funzionare.

 

(Pietro Vernizzi)