Ci sono tante forme di accanimento: c’è l’accanimento terapeutico, che vorrebbe sottoporre un malato a terapie ormai controproducenti; c’è l’accanimento mediatico di chi si ostina a parlare di un tema con notizie senza fondamento; c’è l’accanimento sportivo di chi sottopone una persona ad allenamenti estenuanti ben sapendo che non raggiungerà mai i risultati attesi… Ma davanti alla legge 40 in questi dieci anni abbiamo assistito ad un accanimento rispetto al quale tutti gli altri appaiono giochi per bambini. La legge non era ancora stata firmata dal capo dello Stato e già si stava organizzando il Comitato referendario per la sua abolizione! Tutti sanno come furono raccolte le firme, con quale tipo di coinvolgimento politico, con quanta determinazione da parte dei radicali, convinti di combattere la battaglia del secolo per la difesa dei diritti umani. E paradossalmente è proprio così! La legge 40 è sostanzialmente una legge di difesa e tutela dei diritti umani, a cominciare da quelli di coloro che non hanno ancora voce per reclamare il primo e fondamentale diritto: il diritto alla vita, da cui poi scaturiscono tutti gli altri diritti.



L’accanimento delle sentenze, che si sono susseguite al ritmo di almeno una l’anno per un totale di 11 sentenze volte a scardinare la legge fin dalle sue radici, non hanno mai preso in considerazione il diritto alla vita del concepito: articolo 1 della legge. Smantellando la legge 40 si sono prodotti decine e decine di migliaia di embrioni, congelati, senza tenere affatto conto del loro destino, pur di individuare l’embrione “giusto”, quello da impiantare con la maggiore possibilità di sopravvivenza… Tutti per uno e perché quell’uno vivesse si sono trattati gli altri come materiali di scarto. E l’ultima sentenza della Corte, permettendo l’accesso alla diagnosi pre-impianto alle coppie sane portatrici di malattie genetiche, non esita ad autorizzare un’ampia selezione di embrioni alla ricerca di quell’unico embrione che non sia affetto dalla malattia genetica in questione.



Questa selezione ha un solo nome: eugenetica, e per quanto il nome evochi fatti drammatici avvenuti solo alcuni decenni fa non c’è altro nome possibile. Si applicano agli umani gli stessi principi di selezione della razza con cui si selezionano gli animali per potenziarne alcune prerogative ed eliminarne altre, a seconda degli obiettivi che si perseguono. Non si curano i soggetti malati, non si tentano le moderne strade dell’ingegneria genetica per ovviare a possibili alterazioni, semplicemente si scartano gli elementi difettosi. Non c’è scienza, c’è solo tecnica!

Che un genitore aspiri ad avere un figlio sano è il fatto più naturale che ci sia, così come è naturale che un genitore desideri curare il figlio malato e faccia per questo tutti i sacrifici possibili, a cominciare dal sostegno alla ricerca, perché si possa arrivare al più presto ad una soluzione ottimale per lui. 



Ma eliminare i soggetti più deboli, considerandoli difettosi, è un meccanismo arcaico con cui ci si difende dalla paura di soffrire e di far soffrire. Poiché non voglio che tu soffra, allora decido di non farti neppure nascere, con un atto d’arbitrio che non ha nulla a che vedere con l’etica della cura, autentica forma di pietas umana, che si è sviluppata lungo i secoli. Ma non ha nulla neppure dell’appassionata ricerca scientifica di chi, proprio partendo da quelli che appaiono difetti, si industria per cercare rimedi di cura, sfidando i limiti della tecnica e della scienza, spingendosi oltre, mosso dal desiderio di curare e se possibile di imparare a prevenire.

Paradossalmente, se la medicina avesse imboccato una logica di tipo schiettamente darwiniano, per cui matura il diritto a vivere solo il più forte, quello che è in grado di sopravvivere alla sua stessa specie, non ci sarebbe stato alcun bisogno di coltivare nei secoli una scienza come quella che si occupa di malattie rare e di farmaci orfani. Ci si sarebbe concentrati solo sulle tecniche di potenziamento umano, quell’enhancement che è comunemente utilizzato nel dibattito bioetico contemporaneo per indicare gli interventi non strettamente terapeutici, finalizzati a migliorare le caratteristiche di individui umani “normali e sani” per renderli sempre più potenti. Un viraggio di almeno 180 gradi per la medicina: non più curare ma solo potenziare.