C’è qualcosa di non detto, o meglio non riferito, che pesa sul bilancio della 68ma Assemblea generale della Chiesa italiana, conclusasi ieri con la consueta conferenza stampa del Card. Angelo Bagnasco.
Sono le due ore, circa, di colloquio confidenziale e franco, tra Papa Francesco e il suo episcopato, tenutosi in Vaticano lunedì scorso. Botta e risposta alla Bergoglio, puntellato dalle continue raccomandazioni a non cadere in pasto ai “leoni”, alias vaticanisti assetati di gossip e scoop, per non alimentare il già pastoso chiacchiericcio mediatico fatto di “si dice”, “io le assicuro”, “io credo” di presunti monsignori e curiali, che prima di sbottonarsi supplicano sempre: “non scriva il mio nome”. Per una volta i vescovi ciarlieri, avvezzi alle confidenze, hanno tenuto la bocca chiusa. E già questa è una novità. Poco o nulla è trapelato del dialogo con Francesco, seguito al denso, a tratti sferzante, come sempre implacabilmente sincero, discorso di apertura dei lavori tenuto dal pontefice.
“La lama di un chirurgo che affonda nella carne viva della Chiesa”, la chiusa di un collega non avvezzo alle metafore forti, forse, più semplicemente, la mossa furba di un buon giocatore che mostra le carte e costringe gli altri a svelare la strategia. In questi giorni, autorevoli commentatori hanno sottolineato la severità del Papa, la sua inusuale mancanza di “misericordia”, o meglio di “indulgenza”, verso i vescovi e i loro presunti piccoli vizi o mancanze, cercando di marcare la distanza tra l’episcopato italiano e il pontefice latino-americano, popolarissimo all’esterno, incompreso e solo, dentro le mura vaticane e i confini della Penisola.
E’ evidente lo schematismo facile e l’uso smodato di cliché applicati ad una storia che ha ben altre radici rispetto ai pontificati degli ultimi anni. Francesco è oltre le dinamiche destra/sinistra che qualcuno si ostina ad applicare alla Chiesa. E se è vero che molti suoi vescovi non sempre lo comprendono, ancora più evidente risulta il difetto di interpretazione di certi commentatori. Indubbiamente entrare in sintonia con un Papa così pirotecnico, in pastorale e azione, deve aver creato qualche problema. Il suo slancio in avanti ha sorpreso e preoccupato più di un pastore, e c’è da credere che in molti non abbiano ancora capito dove vuole andare a parare.
Ma sono portata a pensare che lo stordimento non nasconda sempre avversione. Per farmi un’idea di cosa ne pensano le Eccellenze italiane del Vescovo di Roma e Patriarca di Italia ne ho sentita qualcuna, pretendendo nome e cognome. Volevo capire come la provocazione sulla “sensibilità ecclesiale”, vale a dire “l’appropriarsi degli stessi sentimenti di Cristo, di umiltà, di compassione, di misericordia di concretezza e di saggezza”, fatta dal Papa nel discorso inaugurale, avesse scalfito il monolitico corpo della gerarchia italiana, che alcuni si ostinano a disegnare tiepido, se non indifferente o addirittura ostile, alla rivoluzione bergogliana.
Due giovani vescovi, anagraficamente e di consacrazione, mi hanno detto di essere stati sorpresi dallo stile “Francesco”. Mons. Anselmi, don Nico per gli amici, vescovo ausiliare di Genova, scout nel cuore, mi ha confidato che quasi non ascoltava ciò che il Papa diceva, preso com’era da quella sua capacità confidenziale e fraterna nell’invitare al confronto. “Ha parlato poco e ascoltato molto” e “ha risposto con riferimenti personali, aneddoti e storie prese dal suo passato”. “E’ stato massimamente concreto”.
Ecco ciò che più spiazza una chiesa forse un po’ anestetizzata dai troppi convegni e parole, tentata dall’autoreferenzialità e bloccata da una gerarchia ingombrante. “Ci ha provocato condividendo con noi quello che è il suo stile personale — ha affermato Mons. Paolo Giulietti, anche lui ausiliare, ma di Perugia — la vicinanza e l’accompagnamento alla gente sono i cardini della sua pastorale, che ci ha mostrato attraverso la forza della prassi”. Un Papa insomma che parla di collegialità e comunione e che la mostra, saltando anche in maniera brusca i convenevoli per andare subito al sodo.
Nessuna piaggeria; il tono dei due neovescovi, che conosco personalmente e, assicuro, non sono inclini a fare sconti, era sinceramente estasiato. Per scorticare un po’, ho interpellato un paludato monsignore, pastore da anni in una città di provincia, ma non per questo meno addentro alle dinamiche ecclesiali. Il Cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona, passato attraverso la dialettica aspra del Sinodo sulla famiglia e oggi impegnato più che mai a cercare di capire il senso e i segni di questo tempo ecclesiale. La provocazione di Papa Francesco lanciata alla Chiesa italiana, per il pastore marchigiano, è proprio sull’interpretazione della missione del vescovo, compresa in un Mistero più grande. Per lui si deve capire “che il vescovo non è un padrone di qualcosa o di qualcuno, ma colui che in nome di Gesù Cristo esercita la vicinanza nella verità e nella misericordia”. E in questo il Papa dà l’esempio. “Molti lo percepiscono come nuovo — continua Menichelli — ma noi dobbiamo renderci conto che dobbiamo passare da un modo di ideare la pastorale, buono, ottimo, strutturato e fruttuoso in passato, ad un altro tipo di pastorale, capace di coniugare le due famose parole: Verità e Misericordia”. Ma attenzione, non si tratta di “inventare verità o accelerare o ridurre la misericordia” ma di guardare in faccia chi si ha davanti, il famigerato “Popolo” e di “impastare con il tempo che viviamo una sorta di paternità incarnata”.
Menichelli confida in una conversione lenta ma per tutti. E le resistenze? gli chiedo. Lui: “Chi resiste non è resistente al Papa. Dovrebbe fare un esame di coscienza, perché è resistente allo Spirito di Dio. Ci siamo incartati, la pastorale è incartata in certi ambiti, con il risultato di aver imbottigliato lo Spirito Santo. Dobbiamo inginocchiarci e pregare, rendendo il nostro cuore molle all’azione dello Spirito, friabile”. Nelle parole del saggio cardinale tutta la sfida della Chiesa italiana.