La prestigiosa rivista Circulation, edita dall’American Heart Association, ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio condotto su oltre 15.000 persone dal 1992 al 2010, dal quale emerge come il divorzio rappresenti un fattore di rischio significativo per l’infarto miocardico acuto. Nella popolazione studiata il rischio è apparso più elevato nel sesso femminile, con una probabilità di evento coronarico superiore del 24% nei soggetti con un divorzio alle spalle e addirittura del 77% per le donne pluridivorziate. Negli uomini l’aumento del rischio appare minore, con un incremento del 10% in caso di un solo divorzio e del 30% in quello di più divorzi. Linda K. George, uno degli sperimentatori, afferma che tale rischio appare paragonabile a quello provocato dall’ipertensione arteriosa e dal diabete mellito ed appare ridotto solo marginalmente in caso di nuovo matrimonio delle donne, mentre si annulla nel sesso maschile.



Le ultime linee guide della European Society of Cardiology, uscite nel 2012, descrivono dettagliatamente i fattori di rischio cardiovascolare, facendo menzione anche dei cosiddetti fattori psicosociali. Conviene, per completezza, ricordare quali siano i principali: familiarità per cardiopatia ischemica, sesso maschile, età, fumo, ipercolesterolemia, obesità, ipertensione arteriosa, la presenza di diabete mellito, d’insufficienza renale cronica, e della cosiddetta sindrome delle apnee notturne. 



Riguardo ai fattori psicosociali, le stesse linee guida evidenziano come una condizione di basso stato economico-sociale, la perdita di valide relazioni sociali, lo stress lavorativo e familiare e situazioni di ansia, depressione e conflittualità, contribuiscano ad aumentare il rischio cardiovascolare ed a peggiorare la prognosi in pazienti già affetti da malattia coronarica. 

Queste situazioni costituiscono spesso un ostacolo, che impedisce sia condotte di vita più sane, che l’aderenza, da parte dei soggetti già malati, ai regimi terapeutici consigliati. Tuttavia in alcuni casi si è dimostrato come possano agire anche in maniera diretta ed indipendente nella patogenesi della malattia aterosclerotica. Secondo i ricercatori dello studio della Duke University, le ragioni alla base dell’aumentato rischio cardiovascolare nei soggetti divorziati sarebbero complesse, chiamando in causa un possibile ruolo del sistema immunitario, con un aumento del livello d’infiammazione dei tessuti.



A chi scrive appare curioso che, in un’epoca come quella attuale, in cui difficilmente le notizie sfuggono ai canali dell’informazione, dati come quelli pubblicati da una rivista come Circulation siano passati praticamente inosservati. Soprattutto in questi tempi recenti, che hanno visto la rapida approvazione in Italia della legge sul cosiddetto divorzio breve. Compito della scienza è sicuramente osservare la realtà – “molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”, diceva il noto chirurgo e biologo francese Alexis Carrel, premio Nobel per la Medicina nel 1912 – cercando di migliorare la qualità di vita e la durata della sopravvivenza, così come compito del legislatore è agire per il bene dell’individuo e per il progresso della società comune; ma forse quello che manca, talvolta, è un tentativo comune di provare a leggere i dati che la realtà ci mette davanti per farli diventare stimolo per una riflessione sincera sulla condizione dell’esistenza. 

Verrebbe da dire che, invece, venga talvolta sottaciuta, quando non addirittura misconosciuta, la componente di sofferenza e di drammaticità che contraddistingue la vita umana, in una tendenza, da parte del singolo, ad ignorare spesso la ferita dell’altro perché ritenuta aspetto scomodo, fastidioso, capace di minare la felicità personale. In una relazionalità che perde la dimensione dell’amore reciproco, quella ferita – il dolore del prossimo che entra nella nostra vita – non viene ritenuta come possibile benedizione, bensì come elemento da allontanare dalla nostra esistenza il più velocemente ed efficacemente possibile. Ecco, allora, che anche una formula di “divorzio breve”, può divenire il tentativo non solo di anestetizzare un dolore, ma di far uscire rapidamente dalla vita ogni elemento scomodo, eliminando la possibilità che pazienza, sacrificio e buona volontà possano magari mutare una condizione che solo inizialmente appare come negativa ed irrisolvibile. 

Negare al dolore la possibilità di entrare nella nostra vita come una crepa dalla quale possa paradossalmente passare anche la luce, censurarne la presenza cercando scorciatoie verso una felicità spesso effimera, sembra la via più breve per risolvere i problemi dell’esistenza; eppure i risultati a lungo termine ci dicono come spesso, in questo modo, i problemi si ripresentino poi in maniera inesorabile, spesso persino amplificati.

Nella società occidentale, la chiesa cattolica viene spesso tacciata su vari fronti di rigidità, e questo discorso vale anche quando si affronta il problema delle persone separate, divorziate e in nuova unione. Come se proprio chi ha scelto di seguire Cristo non fosse in grado di avvicinare soprattutto chi si trova in una condizione di sofferenza. Bisognerebbe sapere, invece, che, anche se errori ed incertezze sono sempre presenti, proprio all’interno della Chiesa si è aperto un momento di grande riflessione su questi temi e di desiderio di cammino comune con tante persone che hanno affrontato ferite familiari. 

All’interno della diocesi milanese, ad esempio, i singoli decanati hanno da tempo avviato un percorso di fede: “molte persone – mi spiega un amico che segue questi incontri – si sono allontanate da sole dalla chiesa, perché partite dalla sensazione d’essere in difetto. Noi invece vogliamo mostrare che esse in realtà sono attese”. Sembra più corrispondente al vero che, attraverso la comunità della sua chiesa, “il Signore” sia “vicino a chi ha il cuore ferito”, titolo che più di una volta compare nei materiali di supporto a questo particolare cammino pastorale e che, meglio di tante parole, riassume il racconto dell’esperienza di chi potuto conoscere la paternità, la misericordia e l’accoglienza di Dio attraverso una chiesa che non ha mai paura di versare olio sulle ferite dell’uomo.

Argomenti troppo difficili, forse, per chi, come il sottoscritto, é chiamato semplicemente a continuare il suo lavoro di cardiologo, tutti i giorni in ospedale. Ma, forse, riprendere in mano quell’articolo di Circulation e provare a leggerlo con occhi diversi, può essere utile esercizio. Occhi che non siano solo strumento, per quanto importante, per raccogliere un’anamnesi, riconoscere sintomi e segni clinici ed operare per una diagnosi ed una terapia corrette, ma anche sorta di nuove lenti con cui osservare la realtà, esercitare un’empatia, mantenere in esercizio un’umanità che sempre ha bisogno di un’educazione e di una compagnia al cammino. Viene in mente Antonio Rodari – autore del bellissimo libro “La camomilla ha sconfitto il male” – medico dell’Istituto dei tumori di Milano, morto proprio di tumore all’inizio degli anni novanta. Lui, che visse con pienezza gli anni della malattia, senza mai chiamarla disgrazia, preferendo lasciare solo quel “grazia” finale e vivere la questione così. “Il medico – scriveva Antonio – deve essere vero con se stesso e con la vita. Per poter vivere con verità il destino dell’altro deve essere aiutato a vivere con verità il proprio destino. 

Deve imparare a giudicare la sua vita  e le sue azioni non sulla base del loro esito, ma sulla base di ciò che le muove. E questo avviamento non é istintivo, ma è frutto di una compagnia e di un’educazione”. Abbiamo bisogno tutti, non solo noi medici, di mantenere desto uno sguardo di queste proporzioni ed approfittare di ogni circostanza per crescere ogni giorno un po’ di più. E magari riuscire così ad affrontare meglio le ferite di ogni giorno. Anche quelle che rischiano di farci morire di crepacuore.