Su una collina che sovrasta la periferia di Chiavari, appoggiato tra gli alberi di ulivo e l’autostrada (ché da queste parti, così avare di spazio, nessun centimetro di terra disponibile viene sprecato) c’è un piccolo cimitero. La brezza dal mare vicino porta quassù tutti i profumi di questa terra, profumi di erbe e di sale. A questo cimitero ci si arriva a piedi, dalla chiesetta sottostante, inerpicandosi fra minuscoli viottoli tipici della campagna ligure e vecchie case contadine, o per un ancor più scoscesa strada semi-asfaltata. Lassù c’è un silenzio accogliente, ed è bello fermarvisi anche a lungo. Qua, fra tombe di austeri personaggi antichi, vecchi genovesi che hanno costruito questa città, ce n’è una su cui sono posati tanti giocattoli: macchinine, peluche, ricordi di una infanzia bella. È lì che riposa Simone. 



Dieci anni fa a giugno Simone è andato in cielo, aveva 6 anni e una vita di sofferenza e fatica, per tutti i problemi che lo avevano accompagnato dalla nascita. Ma non era mai rimasto solo e sorrideva sempre: ai suoi genitori, ai tanti amici che lo andavano a trovare in ospedale o a casa. Genitori che avevano deciso di farlo nascere senza curarsi di quello che consigliavano medici e infermieri saputo delle sue condizioni: sarà tutto molto più facile se abortirete.



Proprio nello stesso modo con cui lo hanno accompagnato nella sua esistenza terrena, i genitori di Simone e i suoi amici hanno messo su una cosa che vuole far sì che la vita di tutti sia sempre accolta: si chiama Associazione Simone Tanturli e anch’essa esiste ormai da dieci anni perché a quel bambino è dedicata, e si dà da fare perché a tutti, anche ai bimbi che hanno problemi e handicap fisici, sia dato il diritto di andare a scuola, e nella scuola che i genitori pensano sia meglio per lui. Perché lo Stato italiano ancora fa discriminazione, nonostante la Costituzione dica altrimenti, a proposito della libertà di educazione. 



La situazione per quanto riguarda gli studenti disabili è difficile, in un momento storico, questo, in cui il loro numero è in aumento. Spesso le famiglie sono costrette a ricorrere al Tar (lo ha dovuto fare nel 2014 il 10% delle famiglie della primaria e il 7% di quelle dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni) per avere quello che è diritto garantito dalla legge, un insegnante di sostegno, spendendo, come è successo nel caso di una mamma di Sassari, 6mila euro in avvocati. Altrettanto spesso l’insegnante cambia durante l’anno scolastico in corso. Avere un assistente ad personam è spesso impossibile quando un ragazzo con handicap ha bisogno anche di essere accompagnato al bagno o di essere aiutato a mangiare. 

Come fa sapere l’Istat, il numero medio di ore settimanali di un assistente educativo culturale è di circa 10, un nulla. Difficile poi che le classi siano dotate di postazioni informatiche adatte a loro mentre le barriere architettoniche sono un problema nel 62,4% delle primarie e nel 72% delle medie. Tutto questo in un paese, il nostro, che vanta una delle prime leggi sul tema in Europa, la 104/92. Che cosa fa allora una famiglia? Paga, di tasca sua. 

Le spese scolastiche per una famiglia che abbia un figlio con handicap di vario tipo si aggirano sui 23/25mila euro all’anno. Per contribuire alle famiglie con questa esigenza, l’Associazione Amici di Simone organizza eventi di vario tipo, allo scopo di raccogliere fondi. Cene, matrimoni, battesimi, spettacoli. Tutto a carattere volontario. Sono dozzine le famiglie che in questi dieci anni hanno dato la loro disponibilità, impegnandosi a fondo nonostante gli impegni che ogni famiglia ha di suo, dal lavoro ai figli. Eppure l’Associazione va avanti. Perché?

“Non c’era e non c’è bisogno di commemorare nessun figlio morto” racconta Alessandro, il papà di Simone. “Il dono di Simone è ben presente più ora che non quando era qui. Il dolore non è fine a se stesso, ma è una promessa di eternità”. A proposito del lavoro che li impegna nell’Associazione, spiega che “c’era e c’è un bisogno che si è evidenziato, così sono nati gli Amici di Simone. Domani può anche finire questo nostro impegno, ma la risposta pur povera e sgangherata è stata innanzitutto alla domanda mai sopita del mio desiderio di felicità che è passato attraverso le carni ferite e l’animo stanco di chi abbiamo incontrato. Non abbiamo tolto grandi difficoltà, le spese di queste famiglie sono enormi, né sollevato il fisico di chi al figlio deve assicurare un’assistenza continua 24 ore su 24. Ma è nato un rapporto che ci ha fatto sentire accompagnati loro e noi. Il Mistero poi è di un’imprevedibilità tutta sua. Ma se uno sta al gioco non tradisce mai”.

Viene da chiedersi se scopo e bisogno in un’opera come questa possano essere, a volte, in contrasto fra loro. Per Nicola, “l’associazione è nata dal desiderio di fare compagnia alle famiglie di bambini speciali e allo stesso tempo  ha preso la forma di raccogliere fondi per sostenere alcuni progetti a favore di questi bambini. Ognuno risponde a questo bisogno, nei modi più propri. Ci chiedono di organizzare cene, feste, battesimi o apericene: ad alcuni di noi piace farlo e abbiamo imparato a farlo insieme. Preparare questi eventi con cura, dedicarvi parte del nostro tempo e lavoro, per me è la modalità di rispondere al bisogno tenendo sempre presente lo scopo”.

Certo, l’impegno è tanto. Dice Sabrina che “in questi anni stare nell’opera dell’Associazione Amici di Simone, dare il mio tempo, lavorare, vivere rapporti di amicizia, mi ha semplicemente mosso”. Che cosa significa? “Quello che mi ha mosso sin da subito è stata un’amicizia, un legame interessante per me dentro una storia. Sono una che si entusiasma facilmente, mi piace cucinare, curare l’apparecchiatura, fare le bomboniere, decorare, creare… quindi di fronte ad ogni cosa ho sempre avuto l’impulso a dire di sì, e ho avuto anche una grande soddisfazione a fare le cose belle e bene. Nel tempo mi sono accorta che non poteva bastare come non basta rispondere ad un bisogno sempre più grande, grande come il nostro mare. Ci siamo chiesti spesso le ragioni di questo fare che non è mai staccato dal nostro essere amici perché a nessuno basta fare”.

Conclude Sabrina: “Quello che mi interessa è fare esperienza del rapporto quotidiano con Gesù, è imparare a stare dentro tutto quello che io ho. È avere quel desiderio. Quella fame e quella sete. In questi anni nel rapporto con questo insieme di amici ‘sgaruppati’, nel fare festa, nel rispondere alle richieste ho potuto sperimentare una novità continua, una cosa che riaccade sempre nuova se io ci sono”.

Non solo eventi da organizzare e da gestire. Negli anni l’Associazione ha incontrato tante persone che poi si sono dedicate anche loro a questa opera, ad esempio un albanese che era anche finito in carcere e che adesso dà una mano a cucinare. Oppure amici persi di vista da decenni e che poi si rincontrano come fosse un nuovo inizio. E’ il caso di Cristiano: “Il modo con cui si comunica qualcosa non è necessario sia lo stesso per tutti” dice. “Può cambiare, deve cambiare, a seconda della realtà che vivo. Quando uno possiede quello che vive lo può comunicare in tanti modi ed è un bene perché così viene veicolato meglio. Sono contento per la possibilità che mi è stata data di lavorare anche se poco per l’Associazione”.

Conclude Cristina: “Mi tornano alla mente, è sempre mi ripeto, le parole di don Federico ad una messa in ricordo di Simone: essere amici di Simone ci aiuta ad essere sempre più amici di Gesù, per meno non varrebbe la pena fare alcuna iniziativa”.