«L’Expo di Milano ha aperto i battenti ma non ha ancora deciso cosa essere per davvero: un puro show autoreferenziale, un evento mediatico, una finzione di riflessione sui problemi del pianeta. Oppure se vuol essere un fatto, un momento di cambiamento reale: nelle coscienze, nel modo di far politica ed economia. Finora l’unico ad aver preso sul serio la sfida di un Expo che vuol essere di scopo e non d’immagine è stato papa Francesco. Ma tutti quelli che hanno a cuore l’Esposizione hanno ancora tempo per seguirlo». Antonio Intiglietta, ex vicesindaco di Milano, presidente esecutivo di GeFi e patron di quel particolare Expo annuale che è l’Artigiano in Fiera, sceglie un “tornello” molto speciale per entrare nella piattaforma di Rho: le spiagge di Lampedusa, il gate dei barconi della vita disperata e troppo spesso della morte. «Se l’Expo vuole veramente chiamare a consulto i paesi del globo sui modi in cui gli abitanti del pianeta si nutrono, cioè vivono – dice Intiglietta – è impossibile non partire dal dramma del Mediterraneo». Anzi: «Il luogo giusto per trovare soluzioni agli esodi dalle coste libiche è l’Expo di Milano, non la Ue, l’Onu, o la Nato».



La crisi libica e le stragi nel Mediterraneo sembrano un problema essenzialmente politico-militare: cosa c’entra l’Expo?

La premessa dei governi – a partire da quello italiano – è sbagliata: ed è probabilmente questa la ragione per la quale finora non è stata partorita una sola risposta seria. Pensare di bombardare i barconi vuol dire anzitutto ignorare – sapendo di ignorare – ciò che accade da molti anni nelle migliaia di chilometri che separano gli imbarchi libici dal cuore dell’Africa: dove milioni di persone vengono spinte senza sosta e senza alternative. Nessuna alternativa alla fame se non fuggire in Europa. E l’alimentazione è o non è il tema dell’Expo di Milano, in Europa?



Ma cosa può fare l’Expo per l’Africa e la sua ferita aperta nel Mediterraneo?

L’Expo deve fare almeno due cose, tenendo conto che fra gli espositori vi è la larga maggioranza dei paesi del mondo: europei, africani, americani, asiatici. Ricchi e poveri. Un primo è accendere un vero dibattito sullo stato dell’economia del pianeta, a partire dai flussi di materie prime alimentari e non alimentari. Commodities industriali di cui molti paesi avanzati continuano a rifornirsi in Africa come se fossimo nel diciannovesimo secolo e non nel ventunesimo. Cibo che l’Africa non produce o non riceve anche nel ventunesimo secolo. Ma la cosa più importante che può fare l’Expo è re-investirsi: subito, in Africa.



Reinvestirsi come? 

L’Expo è costato oltre due miliardi, fra impegno dell’Italia e investimenti dei paesi ospitati. Bene: tutti possono decidere di mettere a disposizione una cifra analoga per una grande intervento strategico in Africa: meglio se ogni anno sulla base di un piano pluriennale. Un bombardamento di aiuti, una nuova provocazione agli stessi paesi africani: dovete investire sulla vostra autodeterminazione.

Non è una visione legata a un terzomondismo tradizionale?

Le stragi nelle acque italiane sono una realtà di oggi, non una visione. L’Expo è cominciato da quattro giorni e pretende di essere più di una visione. La guerra alla Libia e poi in Libia è una realtà sanguinosa che dura da quattro anni e all’origine vi è semmai una tradizione di cinismo occidentale verso l’Africa. E a me dispiace ricordare che la guerra del 2011 ha spazzato via un tentativo politico diverso, coraggioso: quello del governo italiano di allora che – a partire dal superamento del passato di occupazione italiana a Tripoli – aveva intuito un futuro possibile in una politica di aiuti strutturati. Non così, ad esempio, si è mossa la Francia in Ruanda. Sui barconi ci sono profughi di tutte le carestie e di tutti i massacri. Tutti sappiamo quasi tutto: i capi di governo e i visitatori dell’Expo. Al di là di ogni mistificazione mediatica o di ogni spregiudicatezza diplomatica.

 

I due o tre miliardi all’anno di un’operazione “Expo for Africa” andrebbero investiti in infrastrutture nei paesi mediterranei? 

Personalmente li metterei a disposizione di un forte intervento umanitario in Libia e nel cuore dell’Africa. Guarderei alla rete di Ong che già hanno accumulato esperienza operative e portato risultati. Punterei su programmi alimentari ma soprattutto programmi di education, di formazione, di sviluppo occupazionale. Ripartire dalla cannoniere contro i barconi vuol dire – inevitabilmente – ripartire dalla rabbia delle popolazioni africane, spingerle verso la deriva dello scontro di civiltà: da cui derivano i focolai terroristici e l’idea che è l’Europa va combattuta e invasa. Invece, anche se sembra faticoso, è necessario ripartire dal principio di autodeterminazione dei popoli africani. Il che vuol dire anche, per i cristiani, ripartire anche dal proprio credo. Ma questo lo ha già detto benissimo il Papa nel messaggio del primo maggio: i cristiani sono richiamati a una fede autentica in cui la carità – dall’accoglienza al sostegno di opere educative, sociali ed economiche – sia il campo della loro presenza nel mondo.

 

Cos’ha chiesto veramente papa Francesco all’Expo?

Di non essere una conferenza agricola, un convegno gastronomico, un monumento d’immagine. Di essere invece un’ininterrotta interrogazione delle coscienze. soprattutto quelle di chi ha di più. Ma non solo per metter mano ai portafogli una tantum. La circolazione dei beni sul pianeta – osservata dal punto di vista della nutrizione – non è solo quella di produzione-consumo. L’accoglienza di esodi biblici non può essere solo una procedura burocratica. E’ un problema umano. Se l’Expo non smuove le coscienze dal conformismo non avrà prodotto un solo euro di valore aggiunto. E sarebbe sorprendente che proprio l’Expo di Milano, storico snodo fra Italia ed Europa, fallisse sul piano della concretezza.

Leggi anche

INCHIESTA/ Expo, quanti turisti stranieri sono arrivati in più in Lombardia?SPILLO/ Sull'Expo il sequestro statale di Renzi (e Sala)DOPO-EXPO 2015/ La grande occasione per il "Made in Italygreen"