C’è un giudizio evidentemente condiviso da tutti quelli che hanno partecipato al dibattito suscitato dai due editoriali del sussidiario: la considerazione che l’aborto sia un fatto drammatico, anzi uno dei fenomeni più drammatici che contraddistinguono la vita del nostro tempo. È una percezione molto forte e chiara, e quasi sempre anche ben argomentata nelle ragioni, pur nelle sfumature che differenziano le posizioni. Perché allora questa percezione e queste ragioni fanno così fatica a farsi largo nella consapevolezza comune della maggioranza degli uomini del nostro tempo?
Non credo di andare molto lontano dal vero nel pensare che se domani si andasse a un referendum sull’aborto i risultati non sarebbero molto diversi da quelli disastrosi del 1981, con una maggioranza di italiani che tornerebbe a ribadire il suo consenso al diritto delle donne, a determinate condizioni, a interrompere la gravidanza. Oggi come allora ci si può dunque buttare in una battaglia generosa e un po’ disperata per tentare di arginare questa mentalità diffusa, prodotto di mille fattori forti, tra i quali va annoverata anche una pressione mediatica sempre molto schierata. Ma una mentalità che è prodotto anche di alcuni fattori “deboli”, come ad esempio l’incapacità di tanta parte della chiesa di parlare agli uomini e alle donne del nostro tempo: i discorsi, pur ragionevoli, vengono ammantati da una patina di clericalismo. Sulle questioni di ordine morale, non certo da oggi, i cattolici hanno perso drammaticamente la partita e con le nuove generazioni questa forbice va ad allargarsi sempre di più.
E allora una domanda impellente potrebbe essere ad esempio questa: come faccio a persuadere una ragazza o un ragazzo di oggi, scelti random in una qualsiasi delle mille movide, che l’aborto è profondamente sbagliato e ha dentro qualcosa di disumano? Anche riuscissimo a convincerli in un dialogo con loro, c’è da scommettere che nel giro di pochissimo tempo l’ambiente, il contesto li risucchierebbero rendendo probabilmente vano lo sforzo fatto. Troppo forte la sirena delle mode, troppo sofisticati i messaggi che li e ci bombardano.
Possono esserci eccezioni bellissime, da raccontare e se possibile da moltiplicare, ma le eccezioni, come dice la parola, non spostano la marginalità che, a livello di consenso e di coscienza collettiva, queste posizioni oggi hanno.
E allora la questione è capire come si può parlare di queste grandi questioni agli uomini di oggi. Come aprire brecce nella coscienza delle persone? Il muro contro muro allarga solo il fossato e rende le persone sempre più impermeabili. Bisogna invece essere capaci di un’apertura e di una proposta umana vasta, bisogna essere capaci di un fascino che sia vincente anche rispetto al fascino esercitato dalle tante mode. Papa Francesco che avvicina uomini e donne grazie al cuore con cui le guarda, indica una strada. È attraverso un incontro che riscopre l’umanità delle persone, che la persona stessa può mettersi in cammino, che può arrivare a quella persuasione che nessun bel discorso, nessuno scambio dialettico e nessun confronto riuscirebbe mai garantire.
È una magnanimità non prevista verso il nostro tempo, il fattore che forse può cambiare il nostro tempo.
A proposito di magnanimità, ricordo, come fosse oggi, uno dei passaggi chiave, per quanto un po’ traumatico, della mia vita professionale. Lavorando al Sabato nel 1981, all’indomani della sconfitta davvero bruciante nel referendum sull’aborto, avevamo messo come titolo di copertina “Si ricomincia da 32”. 32 era la percentuale degli italiani che avevano votato per l’abolizione della legge 194 approvata nel 1978. Era il 17-18 maggio. Passarono poche settimane e don Giussani tornò sul tema del referendum in un’équipe con gli universitari che venne significativamente titolata “Si ricomincia da Uno”. Era un giudizio storico oltre che umano quello che Giussani aveva, e che era suonato per noi come una grande lezione anche a livello professionale. Un giudizio storico perché ammetteva con realismo che quel risultato rappresentava «la fine di un mondo» («È stato dimostrato che la mentalità non è più cristiana», aveva detto in quell’équipe). Un giudizio umano, perché spiegava come la ripartenza non potesse fondarsi su un’identità sociale (i 32), ma sulla «presenza fra noi, in forma umana, del Mistero che fa tutte le cose».