Dum Saguntum expugnatur Romae consulitur. Questo amaro commento di Livio, riportato nelle sue “Storie”, ben si presta per commentare l’evolversi più recente della vicenda immigrazione.
Questa volta Sagunto è rappresentata dalle coste della Sicilia, dove gli sbarchi degli immigrati continuano incessanti, e Roma rimane Roma, con i suoi palazzi della politica dove si discute di tutto e con tutti, presidenti di Regioni, commissari europei, ministri ed ex ministri, senza riuscire a prendere una decisone che abbia la pur remota possibilità di far uscir fuori dal vicolo cieco in cui si sono cacciati l’Europa e in primis il Governo italiano. Quel che è più grave è il convincimento che pian piano si sta diffondendo tra la gente, da nord a sud, che ci troviamo di fronte a un problema senza soluzione, con l’unico risultato di provocare reazioni istintive, mentre basterebbe solo po’ di buon senso e una capacità di condivisione per giungere alla meta.
Sembra di essere negli ultimi giorni di una guerra del secolo scorso, quando il probabile vincitore non accelerava la fine delle ostilità per rendere ancora più debole il probabile sconfitto, prolungando così solo la scia dei morti.
Nel caso degli sbarchi i morti ci sono tutti, con il rischio che aumentino, ma la volontà di sedersi attorno a un tavolo, come si fa dopo ogni guerra, non c’è ancora. Chi pensa di poter vincere attende l’annientamento del più debole, sperando di ottenere condizioni più vantaggiose. Peccato che a conclusione di questa guerra non ci saranno né vincitori né vinti, perché sarà l’Occidente intero a rimanere sconfitto incapace di utilizzare in termini nuovi le armi con cui si è autodefinito moderno: la democrazia, lo sviluppo, la solidarietà, l’accoglienza.
Ed allora in attesa che la politica porti a consunzione il percorso suicida che ha deciso di compiere, abbiamo cercato di raccontare cosa accade al “fronte”, al fronte del porto, anzi dei porti siciliani, dove a ritmo crescente si susseguono gli sbarchi.
Tutti sanno, ma il Governo italiano sembra ignorarlo, che la complessa e efficiente macchina dell’accoglienza si regge sull’impegno di tante associazioni e di tanti volontari che ogni giorno continuano a svolgere la propria opera, noncuranti dei diktat di alcuni e delle prediche di altri.
Raggiungiamo Andrea Bellardinelli, coordinatore del programma in Italia di Emergency, mentre si trova al molo di Augusta, dove il ritmo degli arrivi viaggia ormai con intervalli sotto le 12 ore, in attesa dell’ennesimo sbarco. Classe 1967, sposato con una figlia di quattro anni, per tre anni è stato al centro chirurgico di Goderich in Sierra Leone. Dal 2011 è coordinatore per “Programma Italia”.
Emergency è presente in tante zone d’Italia, da nord a sud. In Sicilia c’è dal luglio 2013 perché chiamata da prefettura e autorità sanitarie locali per dare supporto all’esterno di un centro di accoglienza, l’Umberto I di Siracusa. La sua mission è cercare di dare una prima risposta medica alle fasce più vulnerabili della popolazione, grazie a medici, infermieri e mediatori culturali che prestano la propria opera gratuitamente.
Il suo primo riferimento è al lavoro degli altri, a quelli che insieme a Emergency offrono il primo sollievo a quanti giungono sulle banchine dei nostri porti provati da un lungo viaggio, in cui la traversata del mare è stata la frazione più pericolosa.
“In Sicilia le istituzioni stanno facendo un grande lavoro ed è giusto riconoscerlo — precisa subito —. Bisogna aggiungere che in Sicilia c’è una tradizione e una cultura molto profonda dell’accoglienza. Certo in questo lavoro così complesso ci sono luci e ci sono ombre, ma stiamo facendo insieme con associazioni, volontari e istituzioni una grande opera”.
Lo invitiamo allora ad illustrare meglio qual è il suo lavoro.
“Il nostro lavoro consiste — spiega Bellardinelli —, quando il migrante arriva, nell’intervenire subito dopo che si sono concluse tutte le attività legate alla identificazione che sono a carico delle prefetture, e mediche del triage, in genere svolte dall’Asp in collaborazione con la Croce Rossa. Noi visitiamo quelli che mostrano segni di particolari patologie e lavoriamo in stretta collaborazione con l’Asp. Poi, stando anche nei campi di accoglienza, cerchiamo di seguire queste patologie intervenendo e indirizzando i casi più complessi”.
A questo punto sorge la domanda sui rischi che corrono innanzitutto gli operatori più esposti e poi le popolazioni residenti. “Ad oggi — tranquillizza subito — non vi sono casi di patologie particolarmente gravi legate ai territori di provenienza; lo stato di malessere del migrante dipende quasi sempre dallo stress e dalla fatica del viaggio che ha dovuto sopportare. Comunque, ci sono istituzioni preposte e protocolli definiti in grado di intervenire in casi di malattie specifiche: finora tutto ciò ha funzionato perfettamente”.
Chiediamo allora come si vede e si giudica questa drammatica situazione dalla banchina del porto di Augusta.
“Noi abbiamo poco tempo per riflettere — risponde —; siamo abituati, come ci diciamo fra noi, a stare con la testa chinata, chinata su coloro che abbiamo davanti e ai quali dobbiamo fornire un servizio efficiente e immediato. Ciò non ci impedisce di comprendere che la situazione è molto delicata, soprattutto per i soggetti più deboli: le donne e i minori non accompagnati”.
Poi passa ai numeri, quelli ai quali ha contribuito anche col suo impegno. “Vorrei ricordare che l’anno scorso sono giunte nei porti di Siracusa e Augusta 48mila mila persone, di cui 3mila minori non accompagnati; dal giugno 2013 al giugno 2015 siamo già a 70mila, di cui 5.500 minori non accompagnati. Sono numeri importanti che ci devono far riflettere. Quest’anno, inoltre, al solo Umberto I abbiamo fatto circa 10mila visite mediche. Io non ho soluzioni semplici a problemi oggettivamente complessi. Posso però dire che a fronte di questa drammatica situazione vedo un grande impegno delle istituzioni, e di tutti coloro che a vario titolo sono in prima linea. La mia esperienza mi dice che tra quelli che lavorano ci si capisce sempre. Spesso sento vuote discussioni tra i ‘buonisti’ e i ‘non buonisti’. Forse basterebbe essere ‘giusti’ e compiere bene il proprio lavoro. Ricordo in tal senso che ci sono leggi e diritti che devono essere rispettati, soprattutto i diritti inalienabili. Questi o sono garantiti a tutti o non si possono dare a rate”.
Gli chiediamo se talvolta si sente in colpa per ciò che non riesce a fare.
“Noi medici di Emergency siamo chiamati a curare le ferite visibili e cerchiamo di farlo al meglio delle possibilità. Ma poi ci sono quelle invisibili. Una donna violentata ripetutamente porterà per sempre ferite che saranno insanabili. Un uomo picchiato ripetutamente per consegnare fino all’ultimo spicciolo, porterà per sempre ferite che saranno insanabili. Queste violenze subite si esprimono negli occhi, nello sguardo. Eppure questa gente ha ancora voglia di guardare avanti e al proprio futuro. Io forse non riuscirei a tenere così in alto lo sguardo. Questo è quello che imparo curando le ferite visibili”.
Lo invitiamo a questo punto a parlarci delle provenienze di questi immigrati.
“Non ci sono significative novità dalle zone da cui provengono. La maggioranza è costituita da siriani ed eritrei e abitanti dell’Africa occidentale (Nigeria, Gambia, Mali, Senegal). So che c’è una grande differenza giuridica, tra chi chiede di entrare perché fugge dalla guerra e tra chi fugge dalla fame, ma per me sono tutti uguali; hanno tutti paura e paura di morire. Io sono molto positivamente impressionato dalla società civile siciliana; la trovo viva e seriamente impegnata, fatta di persone che guardano negli occhi le altre persone, una associazionismo che si dà da fare. La Sicilia sta dimostrando, pur con tutti i problemi che ci sono, una capacità e solidarietà e di questo va dato merito”.
La discussione giunge al suo nodo cruciale, il futuro quanti sono arrivati e poi accolti.
“Se non superiamo la convenzione di Dublino, io la vedo dura — risponde —. Questo non è solo il mio pensiero, è quello di Emergency, e di tante associazioni che a vario titolo sono impegnate su questo fronte. Poi però bisogna parlare di Bruxelles. Spero che lì ci siano persone disposte ad una riflessione profonda e che abbiamo sufficiente energia e intelligenza per sedersi e ragionare su un fenomeno sociale che si definisce emergenziale, solo per convenienza. Era ampiamente previsto e prevedibile da oltre vent’anni”.
Chiediamo se tutta questa gente intende rimanere in Italia o ha solo voglia di raggiungere i familiari distribuiti in tutta Europa.
“Bisogna saper distinguere — spiega —. I siriani, ad esempio, sanno dove andare, anche perché hanno disponibilità economiche. Ma quelli che vengono dall’Africa occidentale sono convinti che comunque anche in Sicilia si sta meglio che nei loro paesi. E credo che abbiano pure ragione. Ma questi di cui parliamo sono gli effetti, l’origine è il sistema Dublino che va rivisto”.
“Non dimentichiamo poi il problema dei richiedenti asilo — aggiunge dopo una breve pausa —, cioè le lungaggini delle commissioni, sebbene ne sia stato aumentato il numero, e il fatto, cui si pone poca attenzione, che questa gente, magari dopo un anno di attesa, si gioca il proprio destino in 20/30 minuti di discussione e confronto con i componenti delle commissioni”.
Gli chiediamo allora un giudizio complessivo sulla situazione attuale.
“Sono profondamente convinto che in Italia ci sono le forze e le energie per superare anche questa contingenza storica. Lo abbiamo dimostrato in passato in altri frangenti, possiamo farlo anche ora. Ma non da soli, ci vuole una strategia concordata insieme all’Europa. Tuttavia non e possibile presentarsi a questa discussione in Europa con Regioni che hanno dato e fatto tanto come la Sicilia e altre che recalcitrano e si rifiutano di fare la propria parte. Io credo che se cominciamo a spostare questo problema dalla logica politica alla logica dei diritti umani, credo che difficilmente ci troveremo in disaccordo. Poi possiamo avere visioni diverse, però non si può spostare un problema che si fonda sui diritti, quello di fuggire dalle guerre e dalla fame, dai massacri e dalle faide politiche che si riversano sulle famiglie, sul terreno politico. Questo è l’asse centrale. Poi ci sta l’economia, la politica e tutto il resto. Ma viene dopo”.
Per ultimo gli chiediamo se c’è la percezione che sulla sponda libica si prepari una emigrazione di massa verso le coste europee.
“Non abbiamo, per il lavoro che facciamo, una percezione precisa. Abbiamo la consapevolezza che questo è un problema sociale che si può affrontare e risolvere. Come europeo il silenzio dell’Europa mi preoccupa. Lo ripeto: siamo di fronte a un fenomeno innanzitutto di natura sociale. Per esempio l’Americ, in quarant’anni è passata da una comunità afroamericana a una ispanoamericana. Anche l’Europa sarà soggetta a cambiamenti di natura sociale, certo per cause diverse. Sono fenomeni normali che si possono affrontare. Possiamo affrontarli e risolverli anche noi. Ma bisogna cominciare”.