Caro direttore,
le scrivo perché il dibattito che si è aperto attorno alla bella manifestazione di ieri a Roma in difesa della famiglia rischia a parer mio di perdere per strada alcune considerazioni di fondo. Prima di esporle chiedo semplicemente al lettore un minimo di cordialità e di apertura, senza pensare — solo perché si è letto il titolo dell’articolo o altri miei articoli — di sapere già dove intendo arrivare.



1. Anzitutto vorrei dire che è evidente a chi è cristiano, a chi ha incontrato Cristo, di avere una grande fortuna: quella di poter guardare tutto. Dopo la Resurrezione di Cristo, infatti, non c’è niente che non possa essere guardato e giudicato perché tutto — con il Suo gesto infinito di amore — è stato assunto e salvato. In queste settimane, all’opposto, ho sentito parlare di tante cose, ma non di desideri, quasi che i desideri — di chiunque — fossero in definitiva “nemici” della fede, quasi che essi non potessero in alcun modo essere redenti e quindi neppure meritevoli di considerazione e di discussione. 



Nel contatto quotidiano con le persone, invece, o si parte dal desiderio che muove a fare o a chiedere una certa cosa oppure, in definitiva, non si incontra e non si dialoga mai con nessuno. A me, allora, interessa guardare ciò che ha mosso migliaia di giovani irlandesi a tornare in patria per votare al Referendum inerente al matrimonio fra persone dello stesso sesso, interessa cercare di capire perché le persone dello stesso sesso desiderino così ardentemente vedersi riconosciute proprio attraverso l’istituto matrimoniale o pretendano addirittura che la loro esperienza affettiva sia insegnata come “standard” all’interno delle scuole di Stato. 



E mi interessa pure capire che desiderio ci stia dietro coloro che vogliono un figlio a tutti i costi, dietro chi vuole staccare la spina ad un parente che a suo giudizio soffre da troppo tempo o dietro a chi non vuole dare alla luce il bambino che un proprio atto — responsabile o irresponsabile non so — ha contribuito a concepire. 

Finché noi non guarderemo in faccia questi desideri nessuna delle proposte che offriremo sarà davvero adeguata e umana, ma ogni parola rischierà di soffrire di quella parzialità tipica di chi si volta verso l’altro e, in nome di un’esperienza che ha seriamente fatto, pretende di Insegnare che cosa sia il bene e che cosa sia il male per la vita di quell’altro. Il male e il bene, purtroppo, non sono più un’evidenza, ma — pur essendo sempre un’oggettività che con grande misericordia la dottrina della Chiesa bene codifica — nei nostri tempi hanno bisogno di diventare l’oggetto di una scoperta personale, pena il generarsi di una serie di scelte che poggiano o sulla pura istintività o su un’altrettanto inquietante imposizione ideologica. 

Io lo so, ne sono consapevole, che molte delle cose che ho descritto sono alimentate da lobbies che sfruttano il desiderio dell’uomo per distruggere la famiglia e sferrare l’attacco decisivo alla Chiesa cattolica, come so bene che uno Stato di diritto non può legiferare in nome di un eterno permissivismo su tutto e poi venirci a fare la morale sulle tasse o sulla legalità. È evidente: c’è una contraddizione intrinseca a questi pronunciamenti e c’è una vera e propria crociata contro lo stesso sentire cristiano. Ma se esistono uomini che, con le loro leggi, vogliono manipolare il desiderio umano, a chi noi ci rivolgeremmo per cambiare la situazione: a quegli uomini o a quel desiderio? Chi sarà il nostro vero e privilegiato interlocutore? 

Molto onestamente intravedo dinnanzi a me due strade: provare a fermare le leggi (strada fattibile e per certi aspetti, nel medio periodo, anche fruttuosa) oppure, ma questa strada non è in alternativa alla prima, iniziare a dialogare veramente con quel desiderio che ha bisogno di diventare consapevole se non vuole più essere manipolato e manipolabile. 

Vede, direttore, credo che la prima strada sia molto importante (e penso che la manifestazione di Roma, e le altre che certamente seguiranno, si muovano proprio verso questa direzione), ma credo anche che la seconda, che ribadisco può essere imboccata anche un attimo dopo la prima, richieda al contrario un impegno e una solidità che non si esauriscono in un singolo atto, ma che abbisognano di diventare un lento processo, un ri-orientamento costante di se stessi in quella dimensione che, cristianamente, è definita dalla parola “testimonianza”.

2. Si può dunque scendere in piazza contro una legge, per una concezione profondamente umana di famiglia, ma non ci si può sottrarre a quella lenta educazione che si concretizza nel dialogo costante e diuturno con il desiderio di tutte le persone che incontriamo. È su questo secondo versante che vedo tante fragilità e ambiguità: infatti io posso anche dire che mio figlio fa i capricci, ma non posso fregarmene. Posso indubbiamente anche essere indifferente e opporgli strenua resistenza, ma il suo desiderio devo comunque prima o poi guardarlo in faccia. 

Ora, io credo che su questo fronte in tutti questi anni noi cristiani siamo stati molto carenti. Abbiamo avuto pronunciamenti magisteriali magistrali, analisi culturali importantissime, ma tutto questo — al di là di una buona lettura per l’estate — non è diventato vita, la nostra vita. Leggiamo e citiamo santi, papi e uomini ormai venerabili, ma la loro posizione resta per noi ancora un ineffabile mistero da asservire alle nostre piccole logiche di bottega. 

Vede, direttore, io penso che nessuno si possa alzare in una stanza e dire a tutti: “io ho capito”; ciascuno di noi deve ripartire dal fatto che forse, anche rispetto al proprio padre, qualcosa non ha capito. Nelle parole di chi ci ha preceduto si trovano in effetti decine di citazioni che affermano apparentemente tesi contrapposte e che vengono usate a seconda dell’evenienza, dimenticando che nella Chiesa esistono punti oggettivi attraverso cui le parole assumono il loro autentico significato. Questo mi fa tornare alla mente quando, durante l’arianesimo, i cristiani trovavano nella Bibbia frasi in antitesi fra loro e se le sbattevano in faccia l’uno contro l’altro perdendo di vista il bisogno radicale che avevano di capire chi fosse Cristo. Se mi domando come si uscì da quella crisi, come si arrivò alla verità, non posso dimenticare che i Padri cappadoci portarono la Chiesa fuori dall’oscurità solo ridefinendo i termini e i giudizi della Tradizione a partire dall’esperienza contemporanea e concreta della fede. 

In poche parole: noi non capiamo e non dialoghiamo con i desideri degli altri (e tra gli incapaci mi ci infilo anch’io) per il semplice fatto che non capiamo e non dialoghiamo più con i nostri desideri, con la nostra esperienza. Sta quindi all’origine il nostro problema, non nella partecipazione o meno ad una manifestazione. La manifestazione (giusta, buona, bella) non ci eviterà mai “la” questione, non ci eviterà mai il bisogno di ricominciare a dialogare con noi stessi per comprendere nuovamente le parole che chi ci è padre ci ha detto. È quindi dentro di me, dentro l’esperienza che faccio io, che la realtà si fa trasparente e le parole, come i desideri, si chiariscono.

3. Detto questo, io non ho grandi risposte a tutte queste domande perché la vita è una strada che devo fare anch’io, non ho neppure soluzioni, ma so invece — con certezza — che un certo gioco che si sta facendo, attorno all’esegesi delle parole del papa come a quella dei comunicati dei principali movimenti e aggregazioni laicali del nostro paese, è un gioco diabolico che abilmente evita il cuore del problema e che salta i tre grandi temi della nostra epoca, ossia il bisogno di essere riconosciuti, la sensazione di essere stati traditi da qualcuno e la paura che la realtà sia, in definitiva, contro di me. Al di fuori di questi tre ambiti nulla è chiaro e tutto diventa dialettica, se non pretesto, per affermare o riaffermare sé.

Per tutti questi motivi, caro direttore, trovo pertinenti i rilievi contenuti nell’avviso di Comunione e liberazione. In esso, infatti, io non colgo un giudizio sul “che cosa bisogna fare” — ognuno infatti è stato lasciato libero — ma colgo un invito a tornare alle ragioni per cui si fa, a tornare all’esperienza. Ed è proprio di questo che io ho bisogno. 

Mi tornano in mente le parole di una canzone che mi è cara: “La notte che ho visto le stelle/ non volevo più dormire/ volevo salire là in alto per vedere/ e per capire…”: la notte in cui ho incontrato Cristo, non volevo dormire; non mi bastava più fare quello che avevo sempre fatto in nome di una legge naturale che avevo in me, poiché avevo terribilmente bisogno di “salire in alto”, di guardare la vita fino in fondo per capirla, per incontrarla, per abbracciarla proprio come io, povero peccatore, ero stato dolcemente abbracciato.