Giungo a Torino nella sera di ieri per un viaggio programmato da mesi a venerare la Sindone, e trovo tracce e segni del passaggio del Papa. Le trasmetto così come le trovo. Con semplicità come mi arrivano. Il primo elemento è che le parole del Papa a Torino suonano come parole stolte e pazze. Per gente che per rimanere sana e capire la vita, ha bisogno di pazzia. “Alcuni densi minuti di silenzio e di preghiera con lo sguardo rivolto alla Sindone”. È la prima cosa che voglio imparare. Che tutto inizia con il silenzio e con la preghiera. Cioè con il pensiero rivolto non verso i miei problemi, non verso i miei nemici reali o immaginari, non affaticandomi a pensare cosa devo fare o avrei dovuto fare, ma con un raccoglimento nel silenzio e nel vuoto. 



Il Papa, per farsi riempire dalla gente di Torino, prima ha fatto il vuoto e poi “ha toccato con delicatezza e tenerezza la teca che contiene il sacro telo prima di pregare davanti alla tomba del beato Pier Giorgio Frassati”. È la seconda cosa che voglio imparare. Una carezza. La tenerezza. Cos’è una carezza? Cosa fa la tenerezza? Cosa c’entra con la crisi che se non sei duro soccombi?  C’entra che la carezza non fa bene solo a chi la riceve, ma anche a chi la dà.  



Ecco così che il Papa può dire che “l’amore di Dio verso di noi è fedele, ricrea tutto”. È un “amore stabile e sicuro”. È la terza cosa che raccolgo qui a Torino. Sono parole che vorremo vedere incise nei nostri rapporti familiari, di amicizia, di amore, al posto di quelle che sento sempre, che più o meno sono “non ce la faccio più”. Nei messaggi, nelle telefonate dette dagli amici, nella preghiera a Dio: non ce la faccio più. E Francesco torna all’elezione che Dio fa di ciascuno di noi, non alle soluzioni che cerchiamo di dare e non bastano. 



La mano offerta per aiutare perché venga afferrata deve essere vuota, come il cuore che accoglie, che deve essere aperto. Questo è amore stabile e sicuro nella realtà del precariato affettivo e lavorativo. Il Papa dice proprio così: “stabile e sicuro”. Le parole che realizzano ogni nostro sogno nel cassetto. C’è Qualcosa di stabile e sicuro che aspetta solo che la nostra libertà dica sì. Che mettiamo in calce il nostro nome e cognome per firmare. Perché l’amore non delude, non si stanca, non si arrende. 

Ma come fa il Papa a vederle, a sentirle, a viverle queste cose? “Riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, è la porta che apre al perdono di Gesù, al suo amore che può rinnovarci nel profondo, che può ricrearci”. Riconoscere limiti e debolezze? Ma non dobbiamo essere vincenti? Il mondo non è di chi se lo piglia? Non dobbiamo armarci e combattere? Non è ora di serrare i ranghi? Di alzarsi in piedi e dire con forza sì e no? Il Papa dice che non è forte chi è più forte, chi urla di più, è forte chi sa di essere debole. Un buono stratega conosce i punti deboli suoi e del proprio esercito e ancor prima di sapere tutto del nemico, sa tutto di sé. La nostra forza è che la salvezza viene dalla verità, ci ricorda il Papa. Si sta davanti a Dio con quello che si è. In verità. Non è un colloquio di lavoro con il curriculum truccato bene. Non c’è nulla da nascondere di noi. 

Questo è il segno che ci fa comprendere di essere uomini nuovi, “il sapersi spogliare delle vesti logore e vecchie dei rancori e delle inimicizie per indossare la tunica pulita della mansuetudine, della benevolenza, del servizio agli altri, della pace del cuore, propria dei figli di Dio”. 

E poi Torino mi ferma con una citazione che è l’immagine di tutto. “Corriamo il rischio di lasciarci paralizzare dalle paure del futuro” cercando “sicurezze in cose che passano, o in un modello di società che tende ad escludere più che a includere”. Mi vedo. Mi vedo paralizzato dalla paura. Vedo quel mio amico paralizzato dalla paura per il figlio che sembra, che è, così fragile. Vedo quella parrocchia, quella famiglia, quella ragazza sola, quell’uomo separato, quel ragazzo e i suoi amici, quei giovani sposi, quella realtà religiosa, tutto e tutti, con la tentazione forte della paura. E subito la falsa soluzione, ma tentazione fortissima, del fortino. Il fortino che è immagine di una società a ponte levatoio alzato, “ad escludere più che ad includere”. È ancora una volta la sintesi del messaggio del Papa, il cuore del suo pontificato: costruire ponti e non muri, non chiudersi in una società che esclude.

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