Con la società democratica si è venuto a creare lo spazio dell’opinione pubblica: una novità radicale rispetto alle formazioni sociali che l’hanno preceduta; uno spazio che non c’era ai tempi di San Francesco, ma nemmeno in quelli di San Filippo Neri o di Sant’Ignazio. Alla tradizionale funzione della testimonianza se ne è anteposta una inedita: quella della presa di posizione pubblica. Nello spazio pubblico le varie forze culturali possono e debbono esprimere le loro valutazioni, hanno il compito di indicare le priorità che appaiono loro rilevanti. Non essere presenti in questo spazio, restare silenziosi, significa scegliere l’irrilevanza politica. Questa è ben diversa dal quella culturale e da quella sociale ma, una volta conclamata, pone serie ipoteche sulla sopravvivenza delle altre due.
Anche l’universo cattolico, lo voglia o no, produce un’opinione pubblica. Questa, presentando al suo interno più tradizioni e più sensibilità, costituisce un mondo plurale nel quale, pur avendo in comune l’origine ed alcuni punti di riferimento fondamentali — uno dei quali è costituito dall’autorità del Papa — convivono tradizioni ed esperienze diverse. Per quest’opinione pubblica il parere delle autorità ecclesiali è una fonte importante di riferimento, in certi momenti diventa addirittura essenziale. Ma ciò non toglie che questa stessa opinione pubblica, se non vuole essere annullata dalle altre culture presenti nella città secolare, sia chiamata ad esprimersi in prima persona. In quale modalità può farlo? Qui i pareri sono legittimamente diversi.
Personalmente ritengo che la regola sia data dai due diversi contesti nei quali la presa di parola da un lato e la testimonianza dall’altro si trovano di norma ad agire. In una tale prospettiva essere parte dell’opinione pubblica e accedere allo spazio della presa di parola attraverso le forme di volta in volta opportune, non costituisce minimamente, almeno nella sua costituzione originaria, l’esercizio di una funzione di testimonianza. Per quanto esista e sia concretamente visibile un riflesso testimoniale questo, una volta immesso nello spazio della presa di parola, è implicitamente secondario. Prima di andare in piazza per affermare che si esiste, ci si va per dire cosa bisogna fare; prima di andarci per sottolineare dei valori ci si va per protestare ed indicare degli obiettivi. Nell’universo democratico si scende in piazza per difendere dei principi, per chiedere che questi vengano applicati o che vengano rispettati: in questo contesto qualsiasi testimonianza, che si materializza nella presenza visibile, è sempre preceduta dalla presa di parola che, invece, si fonda sull’argomentazione, ed è questo il senso più profondo della dimensione laica inclusiva.
Nel caso in cui si opera in riferimento ad uno scenario di principi direttamente o indirettamente riconducibili ad una dottrina di salvezza come quella cristiana, la testimonianza — che non ha radici laiche, bensì religiose — diventa essenziale, ma essa ha altre strade che preesistono al mondo contemporaneo. Queste si materializzano nel quotidiano, nell’opera di ogni giorno, in quello che realmente siamo o che, per grazia, riusciamo ad essere.
Le testimonianze si declinano sul fronte dei fatti concreti dove ciascuno è personalmente e immediatamente responsabile di ciò che fa (le opere), di ciò che è (la sollecitudine per l’altro) e persino di ciò che difende (i valori che riesce ad incarnare). In questo caso si è in gioco personalmente e quotidianamente, si vedono i limiti e le virtù di ciascuno, emergono le nostre qualità come le nostre meschinità. In quest’ambito gli argomenti non bastano, ci vuole la grazia. La testimonianza implica la grazia di un’appartenenza, mentre la presa di parola si fonda a partire da una convinzione.
Il testimone che vive nell’universo quotidiano del proprio lavoro e della propria famiglia prima di argomentare opera, il manifestante che invece partecipa ad un’espressione pubblica di approvazione o di dissenso, prima di testimoniare argomenta: per quanto i due ruoli appaiono spesso sovrapposti nella stessa persona non sembra esserci dubbio sui rispettivi luoghi di esercizio: nell’ambito della vita personale per il primo e in quello della presa di parola pubblica per il secondo.
Qualsiasi commistione tra i due piani sociali è fuorviante. Manifestare dando al proprio agire il solo valore della testimonianza, non curando adeguatamente le ragioni che la muovono, rischia facilmente di far scivolare la presa di posizione nella retorica e di alimentare un puro scontro tra diversità culturali, tanto esaltante quanto inefficace. In pari modo e con un errore opposto, rovesciare nella vita quotidiana, anziché la testimonianza silenziosa ma efficace di ciò che si è, le parole d’ordine di una presa di parola politica, dà vita a quelle forme di militanza del quotidiano che tanto facilmente sono smentite da una vita che richiede invece sensibilità e attenzione alle circostanze.
Se la testimonianza può vivere della semplice presentazione di sé stessa, la presenza nel contenitore dell’opinione pubblica si alimenta di ragioni. Si tratta di un’avvertenza indispensabile: solo rovesciando il tavolo della pura contrapposizione tra testimonianze, per insediarsi ancora più stabilmente in quello delle analisi e degli argomenti, è possibile cambiare il corso di certi processi che sembrano invece arrivare in modo irrimediabile. È questa la lezione che ci viene dalla Spagna e dalla Francia, dove manifestazioni di portata mai vista sono state ben lontane dall’intaccare il primato culturale che la teoria del gender aveva già conquistato nelle istituzioni.
Una manifestazione di massa non cambia la concezione dell’uomo implicita nei nuovi diritti, può solo cercare di arrestare, seppur provvisoriamente, un disegno di legge richiamando alle loro responsabilità i rappresentanti del popolo che si apprestano a votarlo. Il resto va fatto ai tavoli di confronto. Se intervenire per bloccare l’avanzata di un ddl rientra, in democrazia, nelle normali attività di una specifica componente culturale, non confondere il diritto alla presa di parola con la volontà di testimonianza appare decisivo.
Il primo apre al dibattito ed al confronto mentre la seconda, una volta proclamata sul piano della presa di parola pubblica, sfocia nel rinvio identitario su se stessi, su ciò che si è. Il primo risponde ad un’esigenza di manifestare un principio e chiederne la difesa, la seconda a quella di proclamare un’identità e chiederne il riconoscimento. Il primo può potenzialmente includere tutti coloro che si riconoscono nei principi da sostenere, la seconda può invece potenzialmente escludere tutti coloro che non sono dentro la stessa appartenenza identitaria. L’indiscutibile successo della manifestazione di Roma del 20 giugno apre così dei nuovi piani di lavoro. Occorrerà svilupparlo facendo sì che la dimensione dell’argomentazione prevalga su quella del semplice riflesso identitario.