Erano trascorsi solo pochi minuti dalla conferenza stampa con la quale il cardinale Baldisseri, il cardinale Erdo e monsignor Bruno Forte avevano presentato l’Instrumentum laboris (il documento di partenza) da cui prenderà le mosse la XIV assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi sulla famiglia del prossimo ottobre, che giornali, tv e rete hanno subito iniziato a bollare ogni virgolettato del documento come “conservatore” o “progressista”, troppo pavido o estremamente innovatore.



È uno schema questo che si ripete spesso, ultimamente, nelle vicende della Chiesa e che ricalca appieno quanto accade negli staff elettorali americani dopo i confronti televisivi: si afferma di aver vinto e lo si giustifica citando anche qualche virgolettato del dibattito, nel tentativo di imporre nell’opinione pubblica l’idea di aver effettivamente prevalso nello scontro, indipendentemente dal dato di realtà. Quindi i commenti, le repliche, le “testuali parole”, sembrano realtà, ma sono solo puerile inganno, astuto marketing politico. Se in questo articolo si cerca quindi un’opinione sul documento redatto dalla Segreteria del Sinodo, se si cerca di catalogarlo come di sostegno all’una o all’altra parte in cui ci si divide sulle questioni della famiglia, si rimarrà profondamente delusi: se uno vuol farsi un’idea sul documento forse, semplicemente, conviene leggerlo. In questa sede, invece, si vogliono sottolineare tre questioni di metodo che alimentano la partigianeria e il pregiudizio, il conflitto e l’assenza di carità dentro la Chiesa stessa. E questo, spiace dirlo, accade ripetutamente su molte questioni.



La prima osservazione è semplice: la Verità, ai giorni nostri, sembra avere troppi proprietari, troppi alfieri. La Verità, nella Chiesa, è oggettivamente custodita dalla Scrittura, dal Magistero e dalla Tradizione. Sentire continuamente reciproche scomuniche o accuse di affettata eresia tra cristiani ricorda quanto Benedetto XVI richiamò a tutto l’episcopato della Chiesa in una lettera del lontano 2009, scritta dopo le polemiche sorte attorno alla remissione della scomunica concessa dal Papa a quattro vescovi della Fraternità San Pio X. 

Diceva papa Ratzinger in quella missiva: «Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5,13–15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!” Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata».



Ciascun credente è libero, ma ciò non significa che tale libertà debba per forza tradursi in un continuo “pelo e contropelo” alle parole del Pontefice o dei nostri fratelli nella fede. Tutto questo non solo è di scandalo al mondo, ma rende impellente una riflessione sull’utilizzo stesso della rete. Infatti, e questa è la seconda osservazione, ciò che la rete oggi porta nella società è simile a ciò che portò in Europa la Riforma del XVI secolo: allora il consegnare la Bibbia indistintamente a tutti fu considerato dalla Chiesa di Roma come pericoloso non per il proprio potere, bensì per l’educazione stessa della libertà del popolo. Essere liberi, si diceva, non significa tanto poter leggere la Scrittura, quanto aderire a qualcosa che viene prima, ad una Comunione che precede qualunque idea, causa o opinione e che trova il Suo fondamento nell’essere stata, per quanto concerne la Chiesa, fondata direttamente da Cristo. Col Battesimo e con la Confermazione ci è stato donato di appartenere a Qualcosa di più grande di noi, un Altro ci ha preso in un’appartenenza che si colloca prima di ogni ragionamento o considerazione. La parresia (la franchezza), virtù necessaria e salutare nella Chiesa, non può eludere la responsabilità che le nostre parole comportano. 

Così, ultima considerazione, è tempo di domandarci se tutto questo dibattito che oggi si sviluppa nella Chiesa attraverso la rete è i media sia animato dalla Carità e dal desiderio della Comunione oppure non sia soltanto un tentativo, a volte triste, di rivendicare ciò che ciascuno ha capito senza ascoltare l’Altro, senza seguire nessuno se non noi stessi. Assistiamo nei nostri tempi a porzioni del popolo di Dio che “si mettono in proprio” e, poggiando erroneamente sulle virtù eroiche di Santi del passato, si ergono a maestri dentro la Chiesa. Dimenticando di essere discepoli, dimenticando di essere figli. Coperti da un mare di rabbia e di giustificazioni, di risentimenti reciproci e di dolori mal sopiti, di citazioni e di documenti. È così che noi vogliamo avvicinarci al delicatissimo Sinodo di ottobre? È questa divisione in fazioni e partiti la testimonianza di cui i nostri figli hanno oggi reale bisogno per stare da uomini di fronte alla vita? Se un simile atteggiamento di alterigia si avvertisse in queste mie parole sono qui, fin da subito, a chiedere perdono: io non possiedo la Verità, ma desidero soltanto seguirla con i miei fratelli e sorelle cristiani dentro la Chiesa. Con libertà e responsabilità. Senza insulti o calunnie. Senza che siano terzi a leggere le parole della Chiesa per noi, senza che siano terzi a interpretarle e a guidarci. Senza che fra di noi — insomma — predomini o vinca l’eterno divisore, il Demonio. 

Ciascuno ha un cuore, ha un’esperienza, ha una fede: la usi con franchezza e prudenza per edificare il Bene di tutti. Con questi intendimenti ognuno potrà leggere in umiltà, e senza facili conclusioni indotte dai media o da solerti “capi bastione”, l’Instrumentum laboris preparato con grande accuratezza dalla Segreteria del Sinodo. Solo allora, nella responsabilità che è tipica della millenaria tradizione della Chiesa (e che fu codificata dal cardinale Ratzinger nel bellissimo documento Donum Veritatis), sarà possibile esprimersi, incontrarsi e condividere. Cose del tutto impossibili da fare dopo il misero resoconto di un Tg.