Caro direttore,
quando e a quali condizioni un fatto diventa evento? E soprattutto: chi decide che lo diventi? Il pomeriggio di sabato 20 giugno non ho visto telecamere e postazioni televisive in piazza San Giovanni a Roma tra le centinaia di migliaia di persone arrivate da tutta Italia alla manifestazione per la famiglia e contro il ddl Cirinnà indetta dal comitato Difendiamo i nostri figli. Nemmeno dopo che dal palco è stata data la notizia che eravamo presenti nella piazza e all’inizio delle strade limitrofe che conducono verso il centro in un milione (e oltre).
Il silenzio stampa sarebbe stato interrotto, sulle emittenti televisive nazionali, solo a inizio serata e dovrà pur esserci un motivo se, durante la manifestazione, anche un noto canale di ispirazione cattolica ha potuto ignorare che c’erano un milione di cattolici in piazza San Giovanni.
Se comunque, dopo il 20 giugno, qualcosa cambierà in Italia, ciò si deve sicuramente al fatto che, sulla spianata del Laterano, una chiamata all’appello né politica né ecclesiastica ha trovato la sua risposta in un conteggio di persone che forse richiede ancora di essere effettuato per intero e che ha avuto come motivo la difesa e la proposta di una via buona al pluralismo.
Dal punto di vista del “pluralismo buono”, il concedere per legge alle coppie omosessuali gli stessi diritti matrimoniali dei quali godono gli eterosessuali (introducendo i matrimoni omo con possibilità di adozione), anche se viene sbandierato come una promozione della diversità omo, rappresenta invece l’eliminazione di tale identità differente, in quanto tratta (e sfrutta) l’omo come se fosse etero.
È in questo senso che, alla base delle proposte di legge contro l’approvazione delle quali è stata indetta la manifestazione del 20 giugno, c’è un “pluralismo cattivo” che pretende di salvaguardare le differenze non cercando di comprenderle, ma rendendole indifferenti (come avrebbe detto Paul Ricoeur) e che si fonda su un concetto di libero arbitrio secondo cui il potere di quest’ultimo può spingersi fino a negare l’identità stessa di chi lo esercita. Con l’unica clausola del rispetto degli altri: la mia libertà di fare ciò che voglio finisce dove inizia la tua.
Peccato che non sia vero: se faccio ciò che voglio, prima o poi danneggio anche te. Chi, in altre parole, vuole a tutti i costi un figlio e ricorre all’utero in affitto, lede, in nome dell’esaltazione di un proprio diritto, il diritto del bambino che si vede privato dei genitori naturali.
E il pluralismo “cattivo”, oggi, va decisamente più di moda di quello “buono”, attira non solo telecamere e carta stampata, ma anche il favore dei detentori di queste ultime. Perché si fa portavoce della più antica delle eresie cristiane (poi transitata nelle ideologie e nei totalitarismi anche nelle loro ultime versioni relativistiche), secondo la quale il limite umano può essere umanamente redento attraverso il potere della tecnica e, perciò, l’uomo non ha bisogno di Cristo e della Chiesa per salvarsi: ecco in che senso chi prende posizione contro il gender, prende posizione non solo contro questa contraffazione tecnicista e (come ha scritto Pierluigi Battista sul Corriere della Sera del 21 giugno) moderna del desiderio umano, ma (indirettamente) anche per Cristo e per la Chiesa.
La colonizzazione ideologica del gender non si sconfigge attraverso un addomesticamento legislativo che non sappia rischiare il lavoro di educazione dell’io, ma piazza San Giovanni dice che in Italia la battaglia legislativa può ancora essere combattuta perché l’idea di un pluralismo buono e di una libertà intesa non come potere, ma come rapporto liberante con la realtà delle cose sopravvive in un popolo: sulle sponde del Mediterraneo non sono ancora partiti i titoli di coda delle evidenze ultime e a Roma si è data appuntamento un’esperienza che da Roma può ripartire.
Scalfarotto (forse) no, ma l’Italia, nel 2015, sa che a essere “inaccettabile” non è la manifestazione del 20 giugno, ma il matrimonio tra persone dello stesso sesso, in quanto non è un diritto, perché il diritto si fonda sul rispetto della realtà e non sul potere.