Vincenzo Scotti ha già compiuto 80 anni da tempo e la sola elencazione delle innumerevoli attività svolte in tanti settori della vita pubblica italiana meriterebbe una lunga intervista. Lo incontriamo nella sua attuale qualità di presidente del Link campus University. Nel lontano 1991 fu in grado di affrontare e risolvere, da ministro degli Interni, un problema in parte analogo a quello di questi mesi. Il 13 agosto di quella calda estate, come lui stesso ha raccontato in un convegno a Palermo, sbarcarono in un sol colpo al porto di Bari circa 23mila albanesi, aggiungendosi a quelli già arrivati a piccoli gruppi nei mesi precedenti, per un totale alla fine di 27mila persone.
Può dirci alcuni criteri di massima utilizzati in quella circostanza che potrebbero tornare utili anche oggi?
Sono almeno tre. Primo. L’immigrazione va affrontata con una politica, cioè con una visione strategica di medio/lungo periodo. Secondo. Vanno utilizzati tutti gli strumenti disponibili e necessari. Ci sono momenti in cui ci sono le condizioni per riportare indietro gli immigrati, momenti in cui si possono aiutarli in loco e far crescere l’economia di quei paesi. Terzo. Non si può fare demagogia su queste cose, ci vuole estrema concretezza. E necessario mettere in campo azioni concrete che si fondino su una visione politica, altrimenti se tutto il problema si riduce all’interpretazione di un comma dell’accordo di Dublino, che ci sta a fare la politica? Se di fronte ad una situazione concreta le condizioni sono mutate, allora cambiamo le regole.
Possiamo dire allora che una delle cause di tutta questa vicenda è la mancanza di politica estera dell’Italia?
Si, ma riguarda complessivamente l’Europa e il mondo occidentale. Gli errori che abbiamo fatto in Medio Oriente e nell’Africa del nord, come nei Balcani, sono madornali.
Errori nostri o di qualcun altro?
In alcuni casi noi siamo stati partner di queste decisioni, altre volte siamo stati condizionati dalle decisioni prese sulle nostre teste, ed è stata la quasi maggioranza delle scelte fatte, ma ve ne sono state altre in cui noi siamo stati corresponsabili delle decisioni assunte. Pensiamo ai 2,5 milioni di rifugiati dalla Siria che sono venuti in Europa, o a quelli della Turchia: ma possiamo pensare che questo è avvenuto a prescindere dalle nostre decisioni politiche assunte in precedenza?
E questo vale anche per la situazione che si è determinata in Libia?
Certamente.
Ma ci dicono che questo è frutto di un disegno buono: l’esportazione della democrazia. E così?
Sì, ma facciamo attenzione. L’esportazione della democrazia occidentale, che è un metodo, poggia su una cultura e su una lunga tradizione. Pensare di riportarla in altri paesi in modo automatico non produce gli stessi effetti. Pensiamo ad esempio all’Iraq. La popolazione è costituita per l’80 per cento di sciiti e per il 20 per cento di sunniti.
Era evidente che con il voto una parte avrebbe finito col prevalere sull’altra. Gli americani pensavano che si sarebbe riprodotto un sistema come il loro, fatto di repubblicani e democratici che si alternano alla guida della nazione. Quelli, invece, giocavano su ragioni etiche, non politiche, e così sono comparse le fazioni e l’ingovernabilità è diventata assoluta. In quella situazione con chi tratti e con chi ti metti d’accordo?
Ma c’è un autorità politica in grado di trattare con queste fazioni in lotta? Può trattare lo stesso soggetto che ha scatenato la guerra?
Evidentemente no.
Torniamo a vicende a noi più vicine. Che differenza c’è nell’atteggiamento delle Regioni del nord Italia e le nazioni europee che rifiutano l’ingresso degli immigrati?
Nessuna, perché va diffondendosi un sentimento di paura che sta creando movimenti xenofobi, che non risolvono il problema. In Europa con la paura non si governa. Prendiamo l’esempio di Cameron in Inghilterra: se non cedeva sul referendum sull’Europa, non avrebbe vinto. C’è, purtroppo, un’enorme debolezza della politica.
E la politica come può vincere la paura?
Innanzitutto con una corretta informazione della situazione. Le persone di cui stiamo discutendo, cioè quelle che provengono dall’Africa del nord, sono il 5 per cento del totale di tutti gli immigrati. Noi, facendo una cattiva organizzazione, stiamo trasformando l’accoglienza in un dramma per questi poveracci. Diciamo la verità: l’Europa non ha la capacità, non è in grado di gestire questa situazione.
Ma non può o non vuole? C’è più paura dell’arrivo dell’Isis in Europa o che in Europa non ci siano risorse sufficienti per far vivere anche queste persone?
E’ arrivato il momento di dire, come risulta da atti ufficiali, che la nascita dell’Isis è stata sostenuta anche dagli americani. Ma la paura dei cittadini europei deriva da altro.
E cioè?
Dalla incapacità della sua classe politica: in poche parole gli europei sono convinti che essa non abbia gli attributi politici per combattere questa battaglia. Mentre l’Europa ha senso solo se è solidale, perché non è possibile ottenere i risultati positivi dello stare dentro e poi scaricare sugli altri i mali che ne possono derivare.
A chi fa riferimento, in particolare?
Penso all’Ungheria, alla Polonia; la loro crescita è dipesa in questi anni dal mercato unico europeo. A questo punto, dopo aver goduto dei benefici rispondono che è un problema degli altri. Scherziamo? E poi pensiamo a come abbiamo ridotto la vicenda greca.
Perché?
Perché abbiamo ridotto il rapporto tra Europa e Grecia a quello tra il banchiere e il creditore. Il banchiere dice al creditore: “Tu devi vendere, tu devi fare così o cosà…”, non è possibile andare avanti in questo modo.
E allora?
Allora, dobbiamo usare il verbo al plurale: “Tutti insieme facciamo…”. Purtroppo, la politica non c’è; la politica è la capacità di vedere i problemi, di affrontare l’emergenza, ma anche di saper guardare lontano. Ed invece, con la scusa dell’emergenza abbiamo ridotto il problema a quanti ne prendi tu e a quanti ne prendo io.
Non vorrà negare che in qualche modo bisogna saper gestire questo fenomeno.
Appunto, ma non possiamo ridurlo ai 170mila che dovremmo ospitare in Europa. La Germania senza l’immigrazione non sarebbe la Germania. Berlino è la terza città al mondo per numero di abitanti turchi. Per non parlare poi dell’aspetto demografico.
C’è a suo modo di vedere anche una nuova paura, quella di perdere l’identità, sia quella di italiani o di europei?
Sì, c’è anche, perché all’ultimo momento si pensa di trovare la pietra filosofale, cioè l’identità e di risolvere così il problema. Mi sorge il dubbio che per fermare certi fenomeni si scateni la paura della gente e forse proprio dietro questo scatenamento della paura ci sta qualcosa anche di organizzato. Oggi le guerre non si combattono sui campi di battaglia, ma sulla disinformazione, nuovo grande terreno di confronto.