Stephen Hawking è un genio. Le sue teorie ci hanno spalancato realtà inimmaginabili e che stordiscono al punto da preferire ignorarle. I buchi neri, l’antimateria, l’origine dell’universo. Meglio non guardare, non cercare, se non si ha lo stupore di un bambino, o la grazia di non perdersi di fronte al mistero, all’apparente assurdo. Stephen Hawking ha la sclerosi laterale amniotrofica. Da un numero impossibile di anni. Una volta diagnosticata, gli avevano dato mesi di vita. Poi, un destino segnato dalla scienza medica ha virato il suo corso, senza risparmiargli nulla, ma permettendogli di vivere, non solo, donandogli un di più di eccellenza, a compensare la spasticità e l’immobilità fisica. 



Così ha potuto studiare, continuare le sue ricerche, darne conto al mondo, e non sono affatto finite. Sua moglie ha raccolto in un libro la sua scelta di vivere accanto a un genio, accanto a un malato incurabile, difficile, una star bizzosa e qualche volta dura e cinica. Una storia che è un film splendido e di successo, senza ombra di sentimentalismo e senza sconti, che è valsa il premio Oscar all’attore che si è contorto e piegato poco a poco per diventare Hawking, un fantoccio di pezza storto, con un’intelligenza luminosa e un cuore ardente. 



Hawking ha voluto far sapere al mondo che, in caso di dolore insopportabile, o di inutilità, o di eccessivo peso sulle persone che si curano di lui, chiederebbe di morire per eutanasia. Si può non reagire? Facendone un alfiere della cosiddetta buona e libera morte, ché un cotanto sponsor spazza via d’un colpo ogni obiezione possibile a leggi che qua e là stanno diventando prassi nei paesi più progressisti. O facendone un esempio negativo dell’hybris scientista, dell’ateismo portato alle sue estreme conseguenze, che si vuol far padrone di sé e decidere l’ora e le modalità di partenza. 



Si può evitare di reagire alle sue provocatoria dichiarazioni? Si deve. Perché le sue parole non sono affatto provocatorie, oramai, sono senso comune dal parrucchiere o sulle riviste per ragazzi. Perché Hawking parla ponendo delle condizioni che non sembrano mai inspiegabilmente essersi verificate: soffre di solitudine, ovviamente, non riesce a comunicare come vorrebbe, non può nuotare e giocare coi suoi figli, non è autonomo. Ma è amato. La sua mente ha eccome qualcosa da dare al mondo. E questi “se… se…” allontanano in tempo indefinito la deliberata dipartita. Quasi scaramanticamente.  

Perché pochi anni fa, nel 2013, lo stesso scienziato di fama mondiale aveva rivelato che gli stessi pensieri gli erano balenati altre volte. In particolare, quando una polmonite stava portandoselo via, e gli fu praticata la tracheotomia che gli ha tolto per sempre la possibilità di parlare, ma gli ha salvato la vita. 

Lui avrebbe voluto morire ma sua moglie, racconta, “per fortuna” ha voluto che tornasse a Cambridge, e disse un no fermo alle profferte dei medici. Consentendogli di continuare i suoi studi. Anche di lasciarla per amore di un’altra donna. Da uomo libero, nel bene e nel male. Hawking ha sempre trovato il modo di comunicare con quello che sembrava l’ultimo muscolo a disposizione. E continua a farlo, a scrivere libri, a spiegare e spalancare al mondo l’abisso e il miracolo. 

E’ lui stesso a incarnarli. E’ lui stesso, come ogni uomo, ma lui all’ennesima potenza, a vivere bene e male in modo così evidente sulla sua pelle, in ogni sua fibra, da porsi come interrogativo pulsante ad ogni sua apparizione. No, non è pietà quella che attira su di sé, o solamente ammirazione. E’ una domanda: come fa? A non essere morto, ad essere così tenacemente attaccato alla vita, ad ogni attimo, proprio sapendo che potrebbe essere l’ultimo. Com’è possibile, che gli sia chiesto tanto e che lui sappia dare tanto. Com’è possibile, che nonostante tutto non sia disperato. Che sia capace di ironia, di voglia di darsi agli altri. 

Guai se avesse chiesto di morire, solo e ignorato, in un’anonima e asettica stanza di un hospice. Si chiamano così, oggi, quando il termine significava accoglienza di un ospite, comunque temporaneo, a amato per tutto il tempo dato. Che Hawking abbia mille volte preferito morire non stupisce affatto. Ciascuno di noi l’avrebbe voluto mille volte, al suo posto. Che Hawking abbia voluto continuare a vivere, questo stupisce e commuove. Perché è così evidente che la sua vita ha un senso. La sua e quella di tutti, perché il senso non è dato dal genio o dall’utilità, ma dall’esserci. Per disperazione si può voler scomparire. Ma è per speranza e passione che si decide di vivere. Mario Melazzini ha provato la stessa voglia di farla finita. Ha capito che poteva, finché poteva, dedicarsi a dare — come medico, come padre, uomo. Non ha mai detto che sia stato facile. Melazzini ha incontrato Cristo. Hawking no, non ancora, è troppo arrabbiato, e come giudicarlo, noi che faremmo? Ma gli capiterà di chiedergli tutto, con puntigliosa genialità, quando lo incontrerà, in qualche spazio lontano, attraversato il varco, quando tutto sarà perdonato.