Da oggi se il Peppino Brambilla o il Pasquale Esposito vogliono chiamarsi Pina o Pasqualina, e mettere una crocetta sulla casella F anziché M, cioè cambiare sesso anagrafico, possono farlo senza modificare il loro sesso anatomico, insomma senza interventi chirurgici agli organi genitali.
Lo ha stabilito la Prima Sezione della Corte di Cassazione, che si conferma l’ammazza-sentenze per eccellenza: ai tempi del giudice Carnevale ammazzava sentenze di condanna ai mafiosi, ora più modernamente, boccia in un colpo solo il Tribunale di Piacenza e la Corte d’Appello di Bologna che in materia si erano attenuti alla legge vigente (la 164 del 1982, neanche tanto antica) che richiede appunto un “mutamento di caratteri sessuali” per poter fare un cambio di genere all’anagrafe, e dà ragione al ricorso presentato dai legali di Rete Lenford, l’avvocatura per i diritti Lgbt (lesbo, gay, bisex e trans), che assistono una persona trans di 45 anni. In tanti parlano di sentenza storica, godendosi l’ennesima vittoria dei “nuovi diritti”.: a costoro stanno a cuore le magnifiche sorti e progressive dell’ideologia ultra libertaria, e se ne fanno un baffo della giurisprudenza prevalente. Altri si stracciano le vesti, di questo passo dove finiremo… e paventano una Babele nel diritto delle persone e della famiglia. A costoro sta a cuore tenere le cose essenziali in ordine, e non riesco certo a dargli torto.
Ma lui? Sì, ma a lui (o lei, come si preferisce), a questa persona insomma che maschio nacque, in adolescenza cominciò a sentirsi donna, a 20 anni prese a vivere in privato e in pubblico come donna, a 29 ottenne una sentenza che l’autorizzava all’intervento chirurgico, per ripensarci subito dopo e decidere di mantenere i suoi organi intimi come mamma li fece, pur sentendosi donna, a questa persona, insomma, chi ci pensa? Perché anagrafe sì anagrafe no, Casablanca sì Casablanca no (Casablanca è l’antica capitale del bisturi proibito), quella persona è lì, da decenni, nell’età in cui la vita può dispiegarsi in una matura certezza, a non riuscire a conciliare, come dice il linguaggio degli azzeccagarbugli, il soma con la psiche, il suo corpo come se l’è trovato, dato, alla nascita, e la sua autocoscienza, formatasi va a sapere come e attraverso quali certamente accidentati percorsi. Ecco, se potessi vorrei dire a questa persona che il suo io non è il conflitto tra soma e psiche, che il suo valore non è nell’essere materiale da laboratorio per il gender che avanza, ma nell’essere voluto e amato dal grande Mistero. E vorrei dirgli che io desidererei vederlo con questi occhi e abbracciarlo con un po’ almeno di questo vero amore.
Quanto al gender che avanza, cosa volete che vi dica. Avanza, avanza, da mo’. Avanza da quando ci si è messi in testa che non conta la realtà come dato ma l’autoderminazione del soggetto. San Tommaso definiva la verità come adequatio rei et intellectus, cioè corrispondenza tra la cosa e la ragione. Su questa base sia la conoscenza sia l’etica potevano poggiarsi su evidenze basilari riconosciute. Altri tempi, quelli in cui l’esperienza cristiana aveva compiutamente forgiato la mentalità e l’ethos dei popoli europei. Ci aveva impiegato un millennio e passa. Adesso siamo alla fase finale del percorso (di mezzo millennio) che va dal “cogito ergo sum” (se penso, allora esisto), all’ “esiste quel che penso”, reale o virtuale che sia, non fa gran differenza. 



Intelligenze del calibro di don Giussani, del card. Ratzinger e di don Carron hanno parlato non a caso del crollo delle evidenze connesso alla debolezza e allo smarrimento dell’io. La ragione come misura assoluta diventa arbitrio e sfocia in palese irragionevolezza. Non c’è ragionevolezza né buon senso nel registrare all’anagrafe, poniamo, un Rocco Siffredi, ma io dico neanche un Farinelli (mitica voce bianca del settecento), come Deborah. O no? 
Non è che non si debba provare a metterci delle pezze ma, come avrebbe detto Bartali, “l’è tutto da rifare”. Chi vuole porre la sua speranza, poniamo, nelle corti di cassazione et similia, rammenti che è quanto meno un azzardo: da quelle sedi sono venute sentenze di grande vaglia e saggezza, certo, ma anche bizzarrie tipo – ricordate? (cito a senso): “non è stupro se il jeans è sfilato da una gamba sola”; “non si trattava di maltrattamenti alla moglie perché la donna aveva un carattere forte e non si mostrava intimorita dalle percosse”; “coltivava cannabis ma non ci fu reato perché le piantine non erano ancora giunte a maturazione”, “costringeva il figlio all’accattonaggio, ma questo per alcune comunità è condizione di vita radicata nella cultura”; “Fatti processare buffone, rispetta la dignità degli italiani o farai la fine di Ceausescu o di don Rodrigo non è un insulto a Berlusconi ma un’utile critica sociale”; è invece insulto, e quindi la condanna è stata confermata, per il contadino che aveva dato del maiale al vicino di casa per via dei suoi frequenti e rumorosi rutti.
Nella Babele odierna delle lingue tocca ahimé ricostruire l’alfabeto. Non c’è Collins che tenga.

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