È stata emanata ieri, 21 luglio, la sentenza Oliari e altri contro Italia che condanna il nostro Paese per violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, il quale sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Il caso concerneva tre coppie omosessuali italiane le quali lamentavano di non avere la possibilità, in Italia, né di contrarre matrimonio, né di avere alcun mezzo alternativo per vedere riconosciuti i propri diritti come coppia stabile (“committed stable relationship”) come invece accade ormai in 24 dei 47 Paese aderenti alla Convenzione. Essi sostenevano inoltre che la Corte Costituzionale italiana si era già pronunciata a favore di tale riconoscimento (ma non del matrimonio, riservato per Costituzione a coppie di sesso diverso) e che ormai una significativa maggioranza di italiani è – analogamente – favorevole allo stesso.



La Corte di Strasburgo ha aderito alle argomentazioni dei ricorrenti, sostenute anche dalle molte associazioni intervenute nel processo, affermando che – in mancanza di un riconoscimento legale della loro unione – tali coppie vedono violato il loro diritto a una vita familiare secondo quanto previsto dall’art. 8 così come interpretato dalla Corte stessa a partire dal 2010; la Corte ha inoltre affermato che la mancanza di tale legislazione non può essere supplita dai registri che alcuni comuni hanno istituito, trattandosi di una scelta discrezionale dei comuni stessi e inadeguata al fine della tutela prevista in sede internazionale. Tale tutela comporta, infatti, che vi sia un dovere di mutuo sostegno materiale unitamente a obblighi di mantenimento e a diritti ereditari, il tutto sancito per legge.



Con questa sentenza la Corte si adegua al trend presente a livello europeo e internazionale, recentemente ribadito dalla Corte Suprema statunitense che ha riconosciuto il diritto delle coppie omosessuali ad accedere al matrimonio. Non così in Europa, dove può continuare a sussistere un regime di favore per il matrimonio, ma dove gli Stati possono anche decidere di aprire il matrimonio alle coppie stesse.

Letta alla luce del contesto legislativo vigente nei diversi stati europei, delle tendenze in atto a livello sociale e dei propri precedenti, la scelta non stupisce e pare non lasciare spazio a discussioni. Per entrare nel dibattito occorre allora andare oltre al caso contingente per porre i problemi che la sentenza lascia aperti, prima di tutto quello relativo non tanto al matrimonio/unione civile quanto alla filiazione.



È su questo che ora si appuntano gli occhi di tutti i più attenti commentatori, molti favorevoli all’estensione alle coppie gay legalizzate dell’adozione e della procreazione assistita, alcuni invece (v. Orsina su La Stampa) fermi nel sostenere che la filiazione dovrebbe restare confinata all’ambito matrimoniale. Ed è interessante mettere in luce come le riflessioni su questi temi si incentrino su questioni ancora più ampie quali il senso della natura e della tradizione, la visione antropologica e sociale che discende dall’acuirsi della domanda sui diritti individuali concessi a ogni costo, la difesa della famiglia come luogo della composizione dei diversi e ambito di tutela delle generazioni future.

Scevre di intenti discriminatori relativi ai singoli e alla loro libertà di scelta in campo affettivo, le posizioni di chi è schierato a favore del mantenimento di un regime diverso tra coppie etero e coppie gay arricchiscono il dibattito, che rischierebbe altrimenti di essere appiattito sulla rivendicazione di sempre maggiori spazi di autonomia; rivendicazioni che, per loro stessa natura, non ammettono limiti, né naturali né legali, segno di un’insoddisfazione strutturale che non può essere vinta neppure dal moltiplicarsi all’infinto dei diritti. E viene spontaneo quindi chiedersi: che ne sarà di coloro che oggi vincono la loro battaglia? Troveranno piena soddisfazione, compimento, stabilità, certezza? La loro unione sarà davvero, anche grazie alla legge, un fattore positivo per il contesto sociale in cui si troveranno a vivere?

Ma, al di là di tutte questo domande, è chiaro che ora la parola passa, in Italia, al legislatore. Che almeno in lui prevalga il senso della giurisprudenza, che è essenzialmente prudenza prima di essere luogo di affermazione dei diritti più disparati.