L’ordinamento penitenziario compie quarant’anni. Risale al 26 luglio del 1975. Oggi si vorrebbe modificare una legge non solo attuale, ma anche rispettosa delle garanzie costituzionali richiamate in ogni suo articolo. Alcuni magistrati, tra cui Glauco Giostra — coordinatore dei tavoli degli Stati Generali dell’esecuzione della pena — hanno evidenziato quanto sia necessaria un’inversione di tendenza culturale rispetto alle questioni del carcere e della pena considerando vani meri aggiustamenti normativi per attuare un mutamento di visione nelle risposte penali in seno alla collettività.



E’ palese come il ruolo dell’informazione sia quasi votato a confondere l’opinione pubblica sulle questioni della giustizia, a causa di automatismi di connessione con il settore della sicurezza sociale. Le questioni che ruotano intorno alle sanzioni penali meritano di essere analizzate sotto diversi profili: politico, giuridico, sociologico, amministrativo, con una visione transdisciplinare che non dovrebbe lasciare spazio al pressapochismo. L’aspetto politico è molto interessante, non potendo esso essere scisso dal comune sentire.



I maggiori rappresentanti dei partiti politici, che in genere appaiono in tv, hanno una grande responsabilità rispetto al modo e al linguaggio utilizzati per spiegare ai cittadini, ovvero agli elettori, problemi e temi di carattere sociale attinenti la sicurezza e aspetti caratterizzanti la certezza della pena. Conoscere i contesti rispetto ai quali si argomenta, dovrebbe essere il primo grande passo da compiere. Inutile parlare di carcere e pena come esponente politico se quell’universo è sconosciuto.

Diversamente, se chi ne discetta è anche avvocato, magistrato, docente esperto, operatore del settore giustizia, in qualche modo avrà una visione, forse settoriale, ma indispensabile per un approccio alla materia realistico ed imparziale. La richiesta di una pena “carcerocentrica” è apparsa tuttavia dettata dalla necessità di ripristinare uno stato fondato sulla legalità, ma si sono tralasciate nel tempo le pratiche discendenti da un orientamento di tipo etico e costituzionalistico. Se l’esponente politico è il primo soggetto posto sotto accusa dalla collettività quando rompe il patto sociale per il quale è stato eletto come degno rappresentante, perché smarrisce il fondamento del proprio mandato, ci si aspetta un sopravvenire di sentimenti di credibilità e di onorabilità.



I cittadini richiamano a una sospensione automatica da quel ruolo, senza la necessità di appigli normativi o di rimessione della questione nelle mani della magistratura. Si potrebbe demandare un parere preventivo a un gruppo di costituzionalisti, integrato da qualche magistrato, impegnandoli su aspetti relativi alla mancata conformità ex art. 54 della Costituzione, stabilendo procedure ad hoc di immediata sospensione dalla funzione pubblica esercitata. Si pensi: all’abuso di posizione determinato dall’esercizio di un’alta funzione pubblica, allo scambio di promesse tra politici e burocrati, agli evidenti conflitti di interesse, alle pratiche di occupazione a chiamata, tutte attività non sempre riconducibili a concrete fattispecie di reato.

Il mancato esempio di disciplina e onore genera nell’ambito sociale un risentimento, che riaffiora in sfiducia rispetto al contesto istituzionale, e si rafforza in accanimento forcaiolo nei confronti degli unici soggetti sanzionati con la pena carceraria: immigrati, tossicodipendenti, ladruncoli. L’assassinio è solo un atto materiale o può essere anche un atto formale-burocratico che conduce lentamente alla morte morale e civile di un popolo? Gli scandali di Roma capitale sono l’esempio, forse, più attuale ed eclatante di questo dubbio or ora sollevato. Anche la questione del diritto penale minimo, ovvero di un necessario ripensamento della procedura penale e del suo codice, potrebbe rappresentare un passaggio mirato verso la civiltà.

Posto il raggiungimento dell’obiettivo di disciplina e onore e di osservanza della Costituzione e delle sue leggi da parte dei politici e della classe dirigente, diverrebbe naturale una riconsiderazione del diritto penale come pena di restituzione in termini sociali, non mera interdizione della libertà personale in carcere, ma ravvedimento operoso da attuare direttamente in società, in maniera progressiva, bilanciata e ponderata rispetto all’azione antigiuridica compiuta. L’ossimoro di carcere e risocializzazione potrà essere attenuato avviando una riflessione su come renderlo luogo di legalità e di occasione per un recupero. Ripensare al pianeta carcere nel suo organico di risorse umane rappresenta la prima strada, a garanzia di maggiore professionalità e dedizione al compito.

A questo punto, occorrerebbe creare un team di dirigenti carcerari suddividendo per macroaree: amministrativa, sicurezza e trattamento, sburocratizzando le mansioni interne ed eliminando tutte le prassi non consentite che si frappongono al corretto esercizio della legge penitenziaria. Per favorire il dispiegamento del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica amministrazione in tale delicato settore, bisognerà da un lato, attualizzare un ricambio dirigenziale slegandolo da nomine politiche, soggiacendo in questo modo, ai soli criteri previsti dalla Carta Costituzionale.

Dall’altro, per vigilare sulla correttezza delle procedure e sulle responsabilità derivanti dagli adempimenti funzionali, sarà necessaria la costituzione (già prevista dalla L.10/2014) del Garante nazionale dei detenuti e relative commissioni territoriali per ciascun provveditorato regionale. Sicurezza, gestione amministrativa e trattamento a rappresentanza dell’Amministrazione penitenziaria per un verso e Garante dei diritti dei detenuti a tutela della popolazione ristretta dall’altro, apparirebbe un ottimo binomio sul quale bilanciare l’applicazione di una legge costruita quarant’anni fa sull’indirizzo della volontà del Costituente.

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