Del delitto di Avetrana, si attendeva la sentenza con malsana ansietà, in un tempo in cui le notizie più gravi non smuovono alcuna attenzione. C’è da riflettere, sulla passione morbosa con cui il pubblico, da sempre, segue le efferatezze della cronaca nera, inscenando discussioni con gli amici, i colleghi, occupando le telefonate con la suocera, per non dire dei talk show serali. D’estate, poi, col caldo il cervello fuma, e non c’è massacro a Kobane o sequestro di cristiani che turbi la stanca resa all’afa. Ma il sangue dietro l’angolo, quello ridesta, spinge agli straordinari in tv e perfino le edicole morenti si rivitalizzano per un po’. E si vogliono sapere tutti i particolari, i dettagli più macabri, si scava nelle esistenze dei presunti assassini, si attendono i processi non, come si dovrebbe, con mestizia, ragionando sul male degli uomini, ma tifando per la sentenza, quasi sempre la più dura. Meglio ancora se i delitti si tingono un po’ di rosa, e c’è di mezzo un tradimento o un segreto amoroso.
Meglio se c’è un’innocente che muova la commozione più superficiale, che un “povero angelo!” non si nega a nessuno. E’ lo stesso pubblico che di solito se ne infischia di testimoniare, di svolgere un dovere civile, di mostrare almeno indignazione davanti alle ingiustizie di diverso tipo. Lo stesso pubblico che, appartato nelle riposte stanze di casa, ha fatto spallucce e pensato a proteggere, coprire, giustificare i criminali, per non aver guai, per non crearsi nemici, perché nulla cambi. E’ accaduto così anche nel delitto Scazzi. La cosa forse più incredibile e passata in sordina è la quantità di dichiarazioni false e inattendibili di molti interpellati a deporre. Un paese chiuso, per una famiglia chiusa, impenetrabile, nei suoi recessi di follia. Come in una novella di Verga, quelle più truci, quelle di una realtà di lupi e sepolti in miniera, con le bestie. Come in una tragedia antica, dove almeno c’era la nobiltà di esagerare gli eventi a scopo catartico. Avetrana è un nome che d’ora in poi alimenterà sospetti e inquietudine, toccherà aggirarsi guardinghi, diffidare di ogni sguardo o sorriso, e spiace per le persone perbene.
Due donne sono in carcere, da anni. Con l’ergastolo davanti, poca roba. Sono madre e figlia, l’assassinata è la loro nipote. Perché? Non s’è mai capito davvero, ed è impossibile forse capirlo. Nessuna possibile causa appare lontanamente plausibile. Gelosia tra due ragazzine? Maddai. La follia, soltanto quella. Eppure per follia non si pianifica ogni cosa, la trappola, la cintura intorno al collo, l’amica in attesa deviata col cellulare, il coinvolgimento del cane guardiano, papà Michele, che obbedisca ancora un volta, e trovi il modo di sbarazzarsi del corpo. Col fratello, pure. E magari si accusi, tanto la sua vita peggio di così. E poi le menzogne, le recite a favor di telecamera, di una ragazza solo un po’ grassoccia e a disagio con quel piercing al naso, ma come tante, come quelle che escono coi nostri figli. Da che mondo ancestrale proviene, su cosa e da chi s’è formata, quali sogni, desideri, futuro, sentimenti covava, se non quelli della vipera, della fiera troppo stupida per non sapere che il male non si può nascondere, viene a galla come i cadaveri gonfi e orrendi dai pozzi.
Piangeva, piange, Sabrina. Prega la madre, invoca i santi (di quale pantheon di divinità feroci?)che consolino questa messa in croce che grida vendetta, come fa ogni buona donna di mafia. Che donne sono, queste due donne, in cui misericordia e amorevolezza, tenerezza sono bandite, per farle dure come scorza e aspre come l’aceto. La corte d’appello, dopo tre giorni di camera di consiglio, ha confermato per entrambe l’ergastolo. C’erano ben sedici giudici popolai, costretti a vedere immagini incancellabili, ad ascoltare oscene scusanti, a pensare ogni attimo agli occhi e ai sogni di quella ragazzina bionda, uccisa da mani che credeva amiche.
Hanno deciso, anche senza prove plateali, arma del delitto, confessioni, eccetera. Si è detto sempre che si trattava di un processo indiziario. Epperò quando gli indizi sono tanti, si sommano, e fanno una prova. Ergastolo, ovvero una vita perduta, distrutta, finita. parrebbe, e allora sarebbe giusta e migliore la fine, per mano propria o di stato. Invece tocca credere che anche quelle due vite disgraziate hanno un senso, perché sono state volute, perché possono fare della loro rovina la salvezza, per se stesse e per gli altri. Possono trasformare le loro mani omicide in mani pronte a curare, sanare, accarezzare, perdonare, anzitutto la propria colpa.
Sì, viene in mente l’Innominato. S’è trovato di fronte un animo grande, che ha avuto pietà anche della sua nefandezza. E’ questa pietà che dobbiamo covare in noi, anche per gli assassini, perchè il nostro sistema di detenzione, il nostro modo di guardarli non sia mai privo di speranza e possibilità di perdono. E’ troppo facile sibilare disprezzo, odio, e augurare la morte. Le bestie, fanno così, e non hanno ragione. Cosima e Sabrina, hanno fatto così. Lo sgomento, invece. Che porti a pregare, a osare chiedere la redenzione. O il male ci farà prede, e non avremo più voglia di guardare al domani.