“Uno di noi, don Ciccio uno di noi! Uno di noi, don Ciccio uno di noi!”. Gridavano così, in un afoso pomeriggio catanese, qualche mese fa, una ventina di detenuti del carcere di Piazza Lanza, a Catania, madidi di sudore per una partita di pallone appena conclusa. E mentre gridavano, lanciavano per aria un loro amico, un prete ben più che ottantenne, dal fisico già molto ammaccato, che si concedeva — un po’ spaventato e, insieme, molto felice — a quelle numerose braccia robuste, capaci di lanciarlo in volo e di riprenderlo con dolcezza, senza danni: quel prete era don Ciccio, appunto, che ieri in volo c’è andato per sempre, dopo 83 anni di vita, 61 dei quali da sacerdote.



Come avesse fatto Francesco Pio Ventorino — questo era il suo nome completo, ma tutti lo chiamavano don Ciccio — a farsi considerare “uno di noi” dai detenuti è questione che ha a che fare con il segreto di questo straordinario prete siciliano, che aveva studiato filosofia alla Gregoriana di Roma per dedicarsi poi, a Catania, all’insegnamento di religione. A scuola, però, il sacerdote si era subito accorto che il “suo” cristianesimo poco interessava agli alunni e così, quando alcuni di questi gli avevano detto che una loro compagna di scuola “faceva religione” meglio di lui, don Ciccio si era precipitato ad uno degli incontri tenuti da questa ragazzina quindicenne bionda e slanciata. Colpito dai temi e dal livello del confronto, alla fine della discussione il giovane insegnante aveva chiesto alla ragazza da chi avesse imparato le cose dette: “cominciò a parlarmi — amava ricordare, a distanza di anni — di un certo don Giussani. Quell’estate del 1960 andai fino sulle Dolomiti, al Passo di Costalunga, per incontrarlo”. 



È l’evento che cambia la sua vita: con don Giussani e l’esperienza ecclesiale sorta attorno a lui — Gs, Cl — don Ciccio riscopre la verità di una frase di san Tommaso che lui ben conosceva ed amava: “al loro destino di felicità gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo”. Non c’è uomo, persino il delinquente più incallito, che non desideri la felicità, e non c’è uomo per il quale l’umanità di Cristo non sia seducente anticipo di questa felicità. 

Questa tenace convinzione era declinata da don Ciccio con una peculiare e personalissima sensibilità: c’era la veemenza del carattere, certo; c’era la passione del polemista, non c’è dubbio; c’era la ricchezza profonda della dottrina, non si discute; ma c’era, soprattutto, una tenera ed implacabile passione per il vero e il bene di chi gli stava davanti, e ciò lo rendeva amatissimo (ed anche temutissimo, bisogna ammetterlo). Se stavi a tavola con lui, ad esempio, non arrivavi al terzo boccone senza che partisse l’affondo: e tu, come stai? Sei contento? E tua moglie? E i tuoi figli? E che dice il lavoro? 



Non c’era “Bene!”, per quanto convinto e rassicurante, che bastasse, perché lui ti chiedeva, incalzando, cosa intendessi dire, e quale fosse questo “bene” che affermavi e di cui vivevi: alla fine del pranzo o della cena, che potevano durare ore ed ore, ti alzavi con l’impressione, netta, che lui avesse a cuore la tua vita più di te.

E poi, l’esperienza, i fatti: non gli importava che tu fossi un poveraccio pieno di limiti, lo siamo tutti; ma se ti nascondevi, indocile o presuntuoso, dietro teorie o discorsi, don Ciccio non ti dava requie. Primavera del ’72, storica sede di via Ipogeo 2 a Catania, una quarantina di ragazzi del liceo classico Spedalieri partecipano al “raggio” (così si chiamavano gli incontri dei ragazzi di Gioventù Studentesca). Temi della riunione sono l’incontro e l’avvenimento. Nel foglietto di invito, che veniva proposto a tutta la scuola, è descritto un fatto, le parole sono, più o meno, queste: stai andando a giocare a pallone ed è una partita importante, la finale del campionato studentesco. L’aspetti da settimane, non vedi l’ora. Mentre vai di corsa sul marciapiede, un ragazzo, nella strada, proprio di fronte a te, cade dal motorino e resta a terra, dolorante. Cosa decidi di fare? Te ne freghi e tiri via dritto (ci penserà qualcun altro…) o quel fatto ti colpisce, magari ti fermi, vedi come sta quel tuo coetaneo, cerchi aiuto, mettendo in conto anche di rinunciare alla partita. 

Conclusa la lettura del foglietto, don Ciccio introduce la discussione sottolineando che, solo nel secondo caso, il fatto accaduto è divenuto incontro e avvenimento, perché ti ha cambiato, anche se per un po’. Un ragazzino grassottello, che viene per la prima volta, prende la parola e dichiara che, in teoria, quel ragazzino potrebbe pure fermarsi all’incidente ma senza che ciò comporti un cambiamento del suo complessivo modo di pensare o di fare. Ad esempio… “Non c’è esempio che tenga! — sbotta don Ciccio —. Qui tutti possono parlare di tutto, ma per esperienza, non per esempio!”

Così era Francesco Ventorino, con chiunque. Il detenuto e il poliziotto, lo studente grassottello e il padre di famiglia segaligno, il credente e il laico, l’uomo di potere e il barbone o l’immigrato incontrati alla mensa della Caritas (altra grande avventura, quest’ultima, dei suoi anni più recenti: decine e decine di adulti coinvolti ogni settimana, fedelmente, a Ferragosto come a Natale, con umile e traboccante dedizione, per cucinare e servire un pasto agli inquilini delle periferie del mondo): tutti, agli occhi di don Ciccio, erano innanzitutto uomini desiderosi di felicità, ai quali comunicare Cristo. 

Ci mancherà, questo è certo. Ma lui, che al sentimentalismo cedeva poco o niente, qualche giorno fa, ad un suo caro amico che gli diceva “Come faremo senza te?” ha risposto, un po’ sornione: “Ci sarò, più di prima…”.