“Che bella storia”. Il dolore della malattia è lancinante, ma lo sguardo è sereno. Per ciò che gli è toccato di vivere nei suoi 83 anni pieni di eventi, amicizie, lotte. Fino all’ultimo ha lottato don Francesco Ventorino, per gli amici don Ciccio. Ma stavolta non più per combattere il nichilismo imperante o per rispondere al bisogno degli ultimi (poveri o carcerati). Alla fine ha dovuto lottare con se stesso.
Lo aveva prefigurato questo momento finale e decisivo nel settembre del 2008 quando, durante la predicazione degli esercizi spirituali ai monaci della Cascinazza a Buccinasco (Milano), aveva detto che «la vita è una lotta incessante fino all’ultimo respiro, la lotta della nostra libertà che deve scegliere a chi dare il proprio cuore, a chi appartenere».
Ha vissuto gli ultimi mesi della sua vita con la domanda di poter obbedire serenamente al disegno di Dio partecipando al sacrificio di Cristo e offrendo la sua malattia e il suo dolore per la Chiesa. Al termine della battaglia, è riuscito ad esprimere agli amici, venuti da diverse parti del mondo per dargli l’ultimo abbraccio, la gratitudine per ciò che gli è stato dato di vivere.
Don Francesco Ventorino, filosofo, opinionista di diversi quotidiani nazionali e saggista, è stato soprattutto un educatore, forse tra i più grandi nella Sicilia della seconda metà del XX secolo.
Ai primi di ottobre del 1969, quando arrivò a lezione nella prima liceo, corso C, del liceo Spedalieri a Catania noi alunni avemmo subito la sensazione che qualcosa di nuovo stesse accadendo. Certamente l’ora di religione non sarebbe stata più l’ora dello svago o del gioco. Quel prof dai capelli rossi faceva sul serio. Era uno che, stranamente per la nostra esperienza, credeva in quello che diceva. E usava la ragione sfidando la nostra libertà. Si poteva approvare o dissentire, ma nessuno di noi rimase mai insensibile alle sue lezioni.
A metà anno ci fece una proposta insolita: dedicare due ore della nostra domenica pomeriggio per fare compagnia nei compiti e nel gioco ai ragazzini di un quartiere degradato di Catania. Era il periodo in cui il Catania calcio militava in serie A. E quella forma di caritativa coincideva con l’orario delle partite. Con mia grande sorpresa quando, dopo tante resistenze, aderii all’invito, scoprii che i cortili di San Cristoforo, questo il nome del quartiere in cui venimmo invitati ad andare, erano frequentati da centinaia di giovani “volontari” degli istituti superiori di Catania. E fu così per diversi anni, almeno fino a quando l’ideologia del ’68 non instillò in alcuni l’idea che se si voleva veramente aiutare i poveri bisognava prima cambiare il sistema e fare la rivoluzione. Don Ventorino con un nucleo di fedelissimi rimase fermo nell’idea che solo vivendo l’amicizia cristiana nella sequela di Cristo si poteva cambiare l’uomo e perciò anche il mondo.
Don Ciccio era un prete dotato di una ragione vivace e acutissima, ma la sua ragione era stranamente amica della fede. La sua grandezza nasceva dalla capacità di saper riconoscere il vero anche nei più piccoli. La sua vita di giovane prete, laureato in filosofia alla Pontificia Università Gregoriana, docente di religione al liceo Spedalieri di Catania e assistente della Fuci, ebbe una svolta radicale quando decise di seguire un gruppo di suoi studenti. In loro vedeva qualcosa di insolito, che neanche la sua dottrina riusciva a suscitare: erano stati conquistati dall’accento carico di umanità che la proposta cristiana assumeva nel linguaggio di una studentessa, già alunna di don Luigi Giussani a Milano. «Da quel momento – avrebbe detto poi don Ventorino – ha avuto una svolta decisiva: quella che solo può imprimere una realtà che con tutto il cuore e con tutta la mente avevi sempre cercato, ma alla quale da te non avresti saputo dare né forma né nome».
Nel 1960 don Ciccio aveva voluto conoscere di persona don Giussani e lo aveva seguito durante una vacanza che il prete ambrosiano guidava sulle Dolomiti. Cominciò allora un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita. Un punto fermo mantenne sempre don Ventorino nella sua esistenza: nei momenti critici, la cosa più semplice e più costruttiva era seguire il giudizio, le discrete indicazioni e lo sguardo sulla realtà che veniva da quel prete lombardo che gli aveva cambiato l’esistenza. Non era appena questione di un metodo da applicare con i dovuti aggiustamenti nella situazione siciliana. Era uno “sguardo sulla realtà che – sono parole di Ventorino – non si finisce mai di imparare”.
Don Ventorino è stato l’animatore in Sicilia di Gioventù studentesca e poi di Comunione e liberazione. Sono stati migliaia i giovani che, in questi decenni, lo hanno seguito nell’esperienza cristiana e nella presenza sociale. Nella sola Catania, quella presenza s’è espressa nei quartieri più difficili: da San Cristoforo a Librino, dal Villaggio Sant’Agata a Fossa Creta, dai Cappuccini a Belsito. Dal quel primo nucleo di giessini che si radunava nel 1959 in via Etnea numero 8 è nato un popolo che s’è diffuso in tutta la Sicilia.
In Giussani, Ventorino vedeva testimoniato con la vita e in maniera eminentemente convincente un modo di vivere il cristianesimo che era quello che il suo rettore del seminario, monsignor Francesco Pennisi, gli aveva fatto intravedere nel periodo della guerra. Era un cristianesimo che s’impastava con l’esistenza, e la trasformava rendendola più lieta. Giussani, dal canto suo, valorizzò molto quel prete dall’intelligenza vulcanica e irruento che veniva dalla Sicilia, e non mancò di chiamarlo al suo fianco come collaboratore prezioso nella guida del movimento di Cl.
Nel 2004, per i 50 anni di sacerdozio di don Ventorino, Giussani gli scrive una lettera in cui si accenna alla sua fede come “una primavera reale e regale”.
Don Ventorino fu un sacerdote obbedientissimo, fino all’ultimo, alla Chiesa e ai suoi pastori, ma non fu mai clericale. Nella sua intensa attività pubblica ebbe modo di intrattenere rapporti culturali e di amicizia con Giuliano Ferrara e Ernesto Galli della Loggia, con Marcello Pera e Salvatore Natoli, collaborò con l’Osservatore Romano, Il Foglio e La Sicilia.
Particolarmente intensa fu la sua amicizia con Pietro Barcellona. Da antichi nemici (“contro di lui – ha scritto nella sua autobiografia Barcellona – mi ero battuto in tutto il periodo in cui ero stato segretario del Pci catanese, per sottrarre alla sua influenza molti giovani della mia città”), il filosofo comunista e il prete di Cl divennero amici inseparabili, tanto che scrissero insieme un profondo e fortunatissimo saggio su L’ineludibile questione di Dio, che nel 2010 vinse il Premio Capri.
Nel 2007 – don Giussani era già morto da due anni e alla guida di Cl c’era ora un sacerdote spagnolo, don Julián Carrón – don Ventorino lasciò tutti gli incarichi di responsabilità nel movimento di Cl. Si dedicò dapprima allo studio e alla pubblicazione di alcuni fondamentali saggi sul pensiero di don Giussani. Ma poi cominciò a frequentare come cappellano il carcere di Piazza Lanza a Catania. In quel luogo dove l’umanità emerge nella sua nuda verità, provò ancora una volta quanto la fede fosse capace di cambiare la vita delle persone. E la sua dedizione ai carcerati, che si manifestava anche con una attenzione grandissima ai loro bisogni, lo rese amico di tanti di loro. Il carcere divenne, per lui e per alcuni suoi amici, una nuova frontiera.
Che bella storia, don Ciccio.