Caro Direttore, desidero portare alla sua attenzione quanto sta accadendo nella città di Perugia nelle ultime settimane, perché credo che sia di interesse e rilevanza generale. Prima di tutto occorre raccontare i fatti di cronaca accaduti e poi analizzare le implicazioni concettuali e culturali sottostanti a tutto ciò.
Nel comune di Perugia, ormai da oltre 25 anni, i genitori dei bambini delle scuole materne e delle scuole primarie a tempo pieno, si parla di circa 4.000 bambini, si sono organizzati in associazioni e comitati per collaborare con il comune al fine di erogare il sevizio di una sana e corretta alimentazione. In questi anni, nell’acquisto delle derrate alimentari l’operato delle famiglie è stato talmente virtuoso che ha permesso di risparmiare delle risorse finanziarie. Con tali soldi avanzati i comitati delle famiglie hanno effettuato una serie di attività ricreative per i bambini, tipo spettacoli teatrali, cinema, uscite didattiche, oppure in altri casi sono stati acquistati dei beni strumentali, come videoregistratori o televisioni. Tutti sappiamo molto bene la precaria situazione economica in cui versano le nostre scuole materne e scuole primarie, per cui di fatto, attraverso il sopra indicato meccanismo, i comitati delle famiglie si sono liberamente organizzati per supplire a tali mancanze.
Tuttavia, l’8 luglio la giunta cittadina ha deciso di togliere ai comitati delle famiglie la possibilità di continuare l’attività che stavano facendo per darla in appalto con il servizio mensa. L’importo presunto dell’appalto, limitatamente all’acquisto dei cibi, sarà di circa un milione e duecentomila euro. La principale motivazione che è stata data è che la normativa vigente non permetterebbe tale meccanismo.
Sulla discutibilità di quest’ultima motivazione ho già scritto sulle pagine di un altro quotidiano e al quale rimando per ulteriori chiarimenti (Corriere dell’Umbria, 24 giugno 2015). Qui vorrei maggiormente soffermarmi su quelle che sono state alcune delle motivazioni “nascoste” di tale scelta. Infatti, durante la discussione avvenuta nel consiglio comunale del 7 luglio e tuttora presente in streaming si evince un elevato grado di sospetto e paura da parte di alcuni consiglieri della maggioranza nei confronti di tale sistema. Infatti, secondo questi il presente meccanismo potrebbe facilitare comportamenti di illegalità da parte delle famiglie, come per esempio l’appropriazione indebita di risorse pubbliche. Diversamente la messa in gara di tale servizio garantirebbe da ogni forma di possibile corruzione. Confesso che a partire dal buon senso comune tale motivazione mi sembra alquanto bizzarra! Tanto più se si considerano i continui casi di corruzione pubblica legati proprio alla messa in gara di appalti pubblici.
In ogni caso, il motivo principale per cui mi sento di criticare la presente decisione politica è che tale azione lede il principio di sussidiarietà, con la conseguenza di allontanare la partecipazione dei cittadini alla res publica. Visto che alcuni dei consiglieri dell’attuale maggioranza avevano inserito la difesa del principio di sussidiarietà nel loro programma elettorale, è forse opportuno non dare per scontato che si sappia il significato di tale parola.
Occorre, quindi, fare un breve accenno di cosa si intende con il termine sussidiarietà. Papa Pio XI nell’enciclicaQuadragesimo anno ha affermato che: «Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta societàquello che dalle minori e inferiori comunità si può fare». Ne deriverebbe, infatti, «un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società», poiché «oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa èquello di aiutare in maniera suppletiva [subsidium afferre nel testo latino] le assemblee del corpo sociale, non giàdistruggerle e assorbirle». Pertanto, la sussidiarietà è il principio che indica la priorità delle iniziative che nascono “dal basso”, dalle persone e dalle comunità, per la realizzazione del bene comune e impone ai livelli superiori di organizzazione sociale di non sostituirsi a quelli inferiori, ma di intervenire, se necessario, solo in loro aiuto (subsidium afferre). È evidente che la scelta fatta contrasta con quanto appena è stato detto sul principio di sussidiarietà!
Vorrei portare all’attenzione dei lettori un ultimo e fondamentale aspetto di questa vicenda. Tutto l’operato delle famiglie su che cosa si basava? Sul volontariato, cioè su un principio di gratuità. Il loro contributo alla presente opera in termini di tempo, energie e creatività non era retribuito. Togliere l’erogazione del presente servizio a un’associazione di tipo non-profit per darlo ad una organizzazione d’impresa, qualsiasi tipologia quest’ultima possa essere, significa tramutare ciò che prima non era retribuito in ciò che lo sarà. In altre parole, si manifesteranno dei nuovi costi. Infatti, per quanto le imprese che vinceranno l’appalto potranno essere virtuose ed efficienti dal punto di vista economico non potranno mai completamente compensare tutta l’attività economica non retribuita che era svolta dalle famiglie.
A questo punto si prospettano due soluzioni: un aumento dei costi per la pubblica amministrazione oppure una diminuzione della qualità dei servizi erogati, per esempio nell’inferiore qualità del cibo per i bambini. Concludendo, siamo proprio così sicuri che è stata fatta la scelta migliore?