Con gli attentati a Roma, Firenze e Roma la strategia di usare il terrore e le stragi di Cosa nostra diventa continentale. La mafia sfida lo Stato, trascinandolo in una guerra che aveva  come posta il gioco la stessa sopravvivenza della democrazia nel nostro paese.

Ministro della Giustizia era un docente universitario di rango come Giovanni Conso, che si è spento ieri a Roma all’età di 93 anni.



Resterà come una ferita non suturabile la sua decisione di non rinnovare il carcere duro a circa 300 boss mafiosi. Non aveva, questo torinese segaligno, immerso nel diritto, prestato davvero alla politica, nessuna ragione di scambio con gli esponenti della criminalità organizzata. Insistette nel dire che il provvedimento con cui allentava la durezza del 41-bis non venne concordato con nessuno, fu preso all’insaputa dei suoi più stretti collaboratori e dello stesso capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro.



Quest’uomo delle istituzioni pensò di servirle introducendo un momento di sosta, un periodo di distensione nella resistenza delle istituzioni repubblicane contro la mafia.

Con Moro si era agito diversamente, sacrificandolo in nome di una concezione dello Stato assunto come valore assoluto, bene supremo da preservare.

Dietro Conso ci fu una trama di consensi. Del capo della polizia, di alti funzionari dei dipartimento degli affari penitenziari, di ministri come Mancino (tale è l’imputazione che i processi in corso debbono riuscire a convalidare). Era presente una parte del mondo cattolico impegnato nelle carceri e non solo sulla base di una concezione della pena e della rieducazione dei reclusi che noi laici non possiamo disprezzare. Lo stesso Oscar Luigi Scalfaro sembrò fare da regista di questo disegno di alleviare le sofferenze di centinaia di uomini di Cosa nostra, in cambio della fine della guerra di sterminio che ormai aveva come teatro l’intero territorio nazionale.



A soccombere fu un’altra concezione dello Stato. A impersonarla fu un ministro socialista, il Guardasigilli Claudio Martelli, in collaborazione col ministro dell’Interno, il democristiano Enzo Scotti, e lo stesso presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Appena Giovanni Falcone e la sua scorta vennero travolti da un attentato micidiale, i due titolari dei principali dicasteri della sicurezza e della giustizia misero a punto una strategia diversa dalla cautela di Conso, cioè di limitazione dei poteri, dei collegamenti, della stessa influenza dei boss, ai quali vennero applicata la legislazione repressiva messa a punto per le Brigate rosse. Vennero riaperte le carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara. Furono varate le norme per creare i collaboratori di giustizia, cioè per alimentare il pentitismo. Si mutuarono dagli Stati Uniti strutture investigative come la Cia. Ma il Parlamento non si identificò nelle posizioni di Martelli. Anche i comunisti presero le distanze, e le misure contro Cosa nostra saranno varate solo dopo la morte di Paolo Borsellino.

La più potente organizzazione criminale della nostra storia poteva essere severamente indebolita, se non distrutta. Ma questa concezione liberale dello Stato, che deve essere forte con i forti, venne sconfitta. Martelli e Scotti vennero esclusi dai governi successivi. Fu il trionfo della trattativa, dello Stato che si arrendeva alla violenza criminale.

Conso alimentò una terribile illusione, cioè che con Riina e i suoi sodali si potesse aprire un dialogo, trovare un’intesa. Si potrebbe discutere se e in che misura i sentimenti dell’opinione pubblica fossero, o siano, in sintonia con la volontà rappresentata dall’autorevole giurista torinese, di evitare contrapposizioni radicali, spaccare il paese, coinvolgerlo in una lunga guerra civile. Fatto sta che la linea politica e culturale di Martelli, e dello stesso Scotti, parve essere troppo giacobina. E sono stati puniti. Ha vinto non lo stato di diritto, ma lo Stato caritatevole.