Quattro giovani sorelle residenti in Italia ma di origine straniera hanno deciso ieri di fare un bagno nel Secchia, vicino a Sassuolo (Modena), nella zona di Borgo Venezia, per trovare un po’ di refrigerio alla calura estiva. Poi l’imprevisto, il malore della secondogenita — diciotto anni — e il tentativo estremo di due sorelle, quella di ventidue anni e quella di otto, di salvarla. Infine la tragedia: la diciottenne e la piccolina annegate, mentre la più grande portata via in elicottero dai soccorsi allertati immediatamente dalla quarta sorella, di undici anni, illesa.
La morte è un fatto banale, quasi scontato, nella cronaca di tutti i giorni. Chi ne è colpito si dispera, si dimena, si interroga, gli altri — invece — restano per un attimo attoniti, a volte si fermano, altre volte vanno avanti. Poi il tempo passa e tutto si dimentica. Fino alla prossima tragedia. Il fatto strano è che, come dicono sull’Appennino, la vita appare come una grande ruota e che, come sta scritto sui timpani di molti ingressi di cimiteri, “hodie mihi cras tibi”. Tutti hanno i loro morti e la cosa che forse fa più arrabbiare è che ogni morto, prima o poi, si dimentica, ogni lutto — prima o poi — deve essere superato. Ce lo chiede la vita, ce lo chiede la società, ce lo chiede la ragione.
Eppure, dinnanzi al corpo immobile di colori che abbiamo amato, non possiamo evitarci una domanda radicale e decisiva, un interrogativo che nasce dal senso di una “promessa tradita”, di una “felicità mancata” e che ci porta — come diceva qualcuno in una canzone — a “urlare contro il Cielo”. Ci è stata promessa la vita, ma ciascuno si trova di fronte alla morte. Il nostro cuore vuole vivere, vuole battere per sempre, ma il tempo scorre e tutto passa, tramonta. Ci aggiriamo sulla terra come divinità immortali, presi dalle nostre ragioni e dalle nostre vendette, e non ci accorgiamo che qualcosa di più profondo incombe e ci scuote.
Questo dramma, celato o volutamente ignorato dalla stirpe degli uomini, è come un piede che un Altro continuamente mette alla porta del nostro cuore, affinché non si chiuda, affinché viva. Se non ci fosse la morte in pochi sentirebbero l’urgenza della vita, di un suo senso, di un suo destino, di un suo scopo. La Bibbia ci dice che non è vero che gli uomini hanno inventato Dio per trovare un significato al loro vivere, ma che è Dio che si è reso così presente da non poterLo più ignorare.
Eppure Dio non evita la morte, non la risparmia. Quantunque frutto dell’invidia del Demonio — sempre secondo la Tradizione — la morte non è cancellata o abolita dall’amore di Dio. Essa viene assunta, viene integrata nella Grande Vita di Dio, e — per questo — viene redenta. San Francesco arriva a chiamarla “nostra sorella morte corporale” facendola diventare compagna di strada e di cammino. Ogni giorno qualcosa di noi, dentro di noi o fuori di noi, muore. E questa morte non è “colpa” di Dio. Egli, anzi, la prende con sé e la rende occasione di vita. Consapevole che il Diavolo non si vince uccidendolo, ma perdonandolo.
Così il male, e quelle morti che infettano la nostra casa, il nostro matrimonio, il nostro lavoro, il nostro tempo, non si vincono odiando, ma perdonando, lasciandoli entrare. Ogni male e ogni peccato è come un ospite indesiderato e detestato: solo nel miracolo dell’accoglienza esso schiude i suoi perché e diventa così affrontabile, superabile, vivibile. Per questo Cristo ha accolto — come capro espiatorio — il peccato sulle sue spalle e la morte nelle proprie viscere. Per permettere a ciascuno di noi, e quindi anche a quelle quattro sorelline, di aprire la porta alla realtà che si fa largo e che — se fatta entrare — continuamente ci educa al senso del vivere. Continuamente ci sfida a non chiudere gli occhi dinnanzi al dolore che avanza e che, insieme all’amore, ci rende davvero uomini. Mendicanti di salvezza, pellegrini nella Verità.