Duemila morti nei primi sette mesi del 2015, altri duecento nella giornata di mercoledì scorso: il Mediterraneo è ormai un grande cimitero di migranti. Ma le tragedie quotidiane che si consumano nel mare e gli sbarchi che continuano a susseguirsi con regolarità sulle coste siciliane e calabresi non fanno più notizia. A meno che, come avvenuto in questa settimana, non assumano gli aspetti eclatanti di una ecatombe. I numeri dei migranti sbarcati e dei morti nei barconi alla lunga non ci dicono più niente di nuovo. Non ci commuovono e, perciò, non riescono nemmeno a smuoverci dal nostro torpore e dalle nostre abitudini. Ma quei migranti che lasciano casa, parenti, amici, patria per sfuggire a una morte sicura in vista di una morte probabile, non sono numeri. Sono occhi pieni di tristezza. Sono cuori pieni di desiderio. Sono mani tese alla ricerca di aiuto.



Questi pensieri mi venivano alla mente l’altra sera quando, in una insolita passeggiata serale per il centro di Catania, mi sono imbattuto in due scene emblematiche. Davanti al carcere di Piazza Lanza, sotto la pensilina predisposta per riparare dalle intemperie i parenti dei detenuti, erano stati collocati alcuni materassi su cui dormivano due migranti sbarcati probabilmente nei giorni precedenti. Poco più in là, sui gradini di un negozio con le luci ormai spente, cercavano riposo tre altri migranti. Erano così stanchi e deperiti da suscitare compassione.



Chissà di quali storie ciascuno di loro è portatore, chissà quali tragedie hanno lasciato alle spalle per considerare, comunque, desiderabile la nostra cinica indifferenza. Negli sbarchi anche le procedure sono divenute ormai un fatto routinario, se non una seccatura. Con i funzionari delle prefetture costretti a turni massacranti senza neppure il diritto allo straordinario, con la Protezione civile arrivata ormai allo stremo e la Caritas che non riesce più a far fronte alle richieste di aiuto.

La mensa è stata potenziata, sono nati nuovi centri di alloggio, stanno sorgendo altre iniziative soprattutto per accogliere i minori non accompagnati. Ma è una goccia in un mare di bisogno. Ricordo, qualche tempo fa, l’incontro con Keita, un giocatore di calcio della serie A del Mali, arrivato attraverso la Libia a Lampedusa dopo un drammatico viaggio in un barcone. Trasferito nella grande struttura di accoglienza di Mineo (oggi al centro di inchieste giudiziarie legate al caso romano), Keita si ritrovò una sera al centro di una lite fra migranti di diversi paesi che si contendevano l’unico televisore disponibile. Keita voleva seguire la semifinale della sua nazionale in Coppa d’Africa, altri migranti erano interessati a una partita diversa. L’esito di quella lite fu per Keita tragico: lesione del midollo e paralisi degli arti inferiori. Ricoverato all’Unità spinale di Catania, senza familiari che l’accudissero e senza conoscere una parola di italiano, Keita s’è lentamente ripreso grazie a una struttura attrezzata in cui è stato accolto, e ha conquistato amici e una vita dignitosa, in carrozzella.



Ahmed è, invece, un ragazzo egiziano di sedici anni che i genitori hanno inviato in Occidente con la segreta speranza che almeno lui potesse trovare un futuro felice. Quando è arrivato in Sicilia era spaurito, pieno di lividi per le botte ricevute durante la lunga traversata e disperato. Accolto in una comunità alloggio per minori alle falde dell’Etna è stato letteralmente “salvato” dall’amicizia con un connazionale più adulto che l’ha adottato come fratello minore e dalla dedizione degli operatori della comunità.

Bamba, senegalese, era sbarcato a Portopalo dopo un lunghissimo viaggio attraverso il Mali e la Libia. Condotto al centro di prima accoglienza di Priolo ha avuto la fortuna di poter vivere a Siracusa con una famiglia affidataria. Ripensavo a queste storie che avevo seguito per ragioni professionali l’altra sera mentre vedevo nel centro storico gli effetti dell’ultimo sbarco. Sì, abbiamo ottenuto a Catania una struttura di Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere extra Ue), avremo nuovi magistrati che si occuperanno di individuare e processare gli scafisti, ma senza la disponibilità a commuoverci per il dramma di nostri fratelli che fuggono dalla guerra o dalla morsa dei fondamentalisti o dalla carestia e senza la pratica dell’accoglienza, gli sbarchi che si susseguono settimanalmente rischiano di ridursi solo a una scocciatura o a un business.

Ma i volti dei migranti che incrociamo per strada ci invitano ad aprire il nostro cuore, che assomiglia – come scriveva Domenico Quirico dopo la strage di migranti dell’aprile di quest’anno – a “un sepolcro da gran tempo murato”.